I grandi finanziatori dei repubblicani ci ripensano
Contributi bloccati a chi ha mosso obiezioni alla elezione di Biden
Le grandi aziende americane congelano i fondi alla politica, anzitutto quella tossica. Marchi quali Morgan Stanley nella finanza, Marriott International nell’ospitalità, Blue Cross Blue Shields nelle assicurazioni sanitarie, Dow nella chimica, hanno arrestato i contributi a qualunque parlamentare abbia mosso obiezioni alla legittima elezione di Joe Biden a presidente. L’elenco si è allungato con il passare delle ore: hanno seguito simili orme anche Boston Scientific e Commerce Bancshares. E altri colossi in particolare di Wall Street, da JP Morgan a Goldman Sachs e Citigroup, per non sbagliare hanno sospeso interamente i contributi elargiti a candidati attraverso i loro gruppi di interesse Pac, i Political action committees. Bank of America e Wells Fargo, accanto a FedEx, hanno avviato ripensamenti delle loro intere strategie in politica.
Il passo indietro sullo scottante fronte delle elezioni è scattato in risposta allo shock per l’assalto violento e tragico contro il Congresso da parte di miliziani e dimostranti pro-Donald Trump, che sobillati dallo stesso presidente uscente non ne accettavano la sconfitta. Ma anche in reazione alla decisione di numerosi deputati e senatori repubblicani di continuare a denunciare, dopo le violenze, l’esito di elezioni democratiche e certificate.
Il blocco dei Pac non garantisce che fiumi di denaro cesseranno di foraggiare candidati che potrebbero beneficiare delle “dark money”, attraverso associazioni non profit senza limiti di contributi che non svelano gli sponsor e fiancheggiano i politici evitando un esplicito coordinamento con loro. Rappresenta tuttavia ugualmente una dura presa di posizione.
Goldman condurrà «un esame esauriente» dei recenti comportamenti dei politici. Citigroup, che con il suo Pac ha mobilitato direttamente 700mila dollari nelle ultime elezioni, ha sospeso le donazioni per un trimestre aggiungendo che «non sosterremo candidati che non rispettano la legge». JP Morgan, reduce dalla raccolta di 900mila dollari per candidati a poltrone federali, ha indicato che «ci sarà tempo più avanti per campagne politiche».
Non è questa la sola mossa del business, che già aveva progressivamente lasciato Trump, per isolare il presidente uscente e i suoi sostenitori a oltranza. Il prestigioso Pga of America ha rotto con il Trump National Golf Club di Bedminster in New Jersey, dove teneva il principale torneo. L’Ordine degli avvocati di New York potrebbe radiare Rudy Giuliani per il ruolo a fianco di Trump.
Nel mondo tech Twitter, Facebook e altri influenti social media hanno sospeso, nel caso di Twitter in modo permanente, gli account di Trump. Il servizio di pagamenti digitali Stripe ha bloccato transazioni legate alla sua campagna, citando regole che escludono chi «partecipa, incoraggia, promuove o celebra illegale violenza contro persone o proprietà». Shopify ha cancellato vendite online legate a Trump. YouTube di Alphabet ha dato lo stop al podcast dell’ex consigliere di Trump Steve Bannon. E l’alternativa a Twitter preferita dall’estrema destra, Parler, è stata oscurata dopo che Apple a Alphabet hanno rimosso la sua app dai negozi digitali e che Amazon l’ha estromessa dai suoi server cloud, dichiarandone nei fatti la chiusura. Parler ha denunciato in tribunale Amazon.
I giri di vite hanno però anche intensificato il dibattito sull’eccessiva discrezione e influenza esercitata dai leader digital, al di là della crisi scatenata da Trump. Nuovi appelli sono emersi non solo per azioni antitrust ma per riforme strutturali su carenze di supervisione e troppe protezioni legali dei gruppi Internet sul content che ospitano e pubblicano, la cosiddetta Section 230 della legge sulle tlc. In gioco è un equilibrio ora spezzato tra libertà d’espressione e modelli di business criticati per aver facilitato, con profitto, radicalizzazione e estremismi.