Pandemia, recessione, proteste: per l’India l’anno più duro
Il Covid aggrava la crisi di una economia già in frenata e le riforme perdono slancio Stop alla liberalizzazione del settore agricolo dopo mesi di contestazioni
Il Covid-19 (già oltre 10 milioni i contagi) condanna l’India a una delle recessioni più marcate tra i Paesi emergenti e pone nuovi ostacoli sull’accidentato percorso di riforme del premier Narendra Modi, costretto a incassare lo stop alla liberalizzazione dell’economia rurale, dopo mesi di proteste in tutto il Paese.
Il Covid-19 condanna l’India a una delle recessioni più marcate tra i Paesi emergenti e pone nuovi ostacoli sull’accidentato percorso di riforme voluto dal premier Narendra Modi, costretto ora a incassare lo stop alla liberalizzazione dell’economia rurale, dopo mesi di proteste.
Con oltre 10 milioni di infezioni, l’India è la seconda nazione più colpita dalla pandemia dopo gli Stati Uniti, ma con una popolazione di quasi 1,4 miliardi di abitanti. L’età media molto bassa, sotto i 30 anni, ha aiutato a contenere i decessi: i circa 150mila morti registrati, tanti in assoluto, sono pochi rispetto ai contagi, anche considerando i dubbi sulle statistiche ufficiali. Il tasso di mortalità appare così tra i più bassi al mondo (circa l’1,4%). Il Governo ha lanciato la campagna di vaccinazione e i contagi stanno scendendo.
Segnali incoraggianti arrivano anche dall’economia. A inizio mese, l’Istituto nazionale di statistica ha previsto una contrazione del Pil del 7,7% per l’anno 2020-21 (che si chiude il 31 marzo), in linea con la Banca centrale (-7,5%, rispetto al -9,5% stimato a ottobre). L’Ocse prevede una flessione del 9,9%, seguita da una crescita del 7,9% l’anno prossimo. Come osserva Prakash Sakpal, di Ing, la frenata era iniziata prima della pandemia: nel 2019 la crescita si era fermata al 4,2%. La prima ondata di infezioni ha fatto crollare il Pil del 25% tra aprile e giugno, rispetto ai tre mesi precedenti. L’allentamento delle misure restrittive ha permesso un rimbalzo del 21% nel trimestre successivo. Su base annua, la contrazione nei primi sei mesi è stata del 15,7%, la più grave nella storia dell’India e la peggiore in Asia.
Governo e Banca centrale hanno cercato di reagire, ma l’azione è stata limitata dai vincoli di bilancio. Il pacchetto di interventi, valutato tra il 10 e il 15% del Pil dall’Esecutivo, si compone in gran parte di misure di politica monetaria, osserva ancora Sakpal. Anche così, il deficit viaggia verso il 7,5%, secondo Ing, contro il 4,6% dello scorso anno. Una zavorra in vista delle sfide del 2021, con la campagna di vaccinazioni da finanziare e l’eventualità di dover soccorrere imprese e banche.
Su questo quadro, si innesta la protesta contro la liberalizzazione dell’economia rurale, con decine di migliaia di agricoltori in rivolta, blocchi di strade e ferrovie, sit-in nella capitale. Fino ad arrivare allo stop decretato dalla Corte suprema, che il 12 gennaio ha sospeso la riforma.
Tutto comincia a settembre, quando il Governo interviene su un vecchio sistema di norme, che obbliga gli agricoltori a vendere i loro prodotti a commercianti autorizzati in mercati controllati dagli Stati: la riforma consentirebbe invece di vendere a chiunque. Nel rigido regime attuale, gli agricoltori possono però anche cedere i raccolti ad agenzie governative a un prezzo minimo di sostegno (Msp): uno schema che li protegge dalle oscillazioni del mercato e al quale non vogliono rinunciare.
Né questa sembra l’intenzione del Governo, che, a causa della pandemia, ha potenziato il programma di distribuzione pubblica del cibo, alimentato appunto dall’acquisto di derrate attraverso appalti. Lo schema dell’Msp, per il quale lo Stato sborsa ogni anno circa 25 miliardi di dollari, è affiancato da sussidi per irrigazione, elettricità, fertilizzanti, sementi. L’agricoltura produce il 17% del Pil, ma dà occupazione a oltre metà della forza lavoro. L’industrializzazione del Paese, che Modi insegue fin dal primo mandato, non potrà avvenire senza cambiamenti radicali. La protesta degli agricoltori è alimentata dal timore di perdere le garanzie dalle quali dipendono e dal sospetto che le nuove regole possano avvantaggiare soprattutto i grandi potentati economici.
Nel suo primo mandato di Governo, tra il 2014 e il 2019, Modi ha lanciato un vasto programma di riforme e ha aperto agli investimenti esteri. L’obiettivo era e resta modernizzare l’India e farne un hub per l’industria mondiale: l’ambizioso piano Make in India avrebbe dovuto portare il manifatturiero al 25% del Pil entro il 2025, da poco meno del 15% del 2014. Da dove però non si è sostanzialmente mosso. Lo slancio innovatore ha perso spinta sul finire del primo mandato, ma è riuscito comunque a produrre altre due riforme storiche: l’imposta nazionale sull’acquisto di beni e servizi (Gst, una sorta di Iva che ha accorpato la miriade di balzelli statali che frazionavano il mercato interno) e il codice dei fallimenti.
Durante la campagna per la rielezione e nella prima fase del secondo mandato, quando pure ha varato un cospicuo taglio della tassazione sulle imprese, Modi si è però concentrato sui temi più populistici della sua agenda: dalla controversa e criticata stretta sulla minoranza musulmana, ai rapporti con la Cina. Le tensioni con Pechino sono culminate nel rifiuto di aderire al “suo” mega accordo commerciale regionale, la Rcep di fine 2020.
Con la liberalizzazione in agricoltura, Modi tenta di ridare slancio alla modernizzazione del Paese, ma si scontra con resistenze e timori radicati e un contesto, quello del Covid e della recessione, tutt’altro che favorevole.