Tecnologie ultra innovative, l’Italia gioca la partita
Deep tech. Gli investimenti sono in crescita del 20%: il nostro Paese ha ricerca di base di livello. Ora conta su fondi per un miliardo di euro per sostenere il technology transfer
Si chiama “deep tech” la nuova febbre dell’oro che ha colpito gli investitori tecnologici e che in Italia può già contare su un miliardo di euro da investire. Incentrate su soluzioni uniche, progressi scientifici protetti o difficili da riprodurre, le tecnologie “deep” sono altamente disruptive e promettono ritorni sugli investimenti epocali. Gli analisti di Bcg descrivono un aumento annuale degli investimenti di almeno 20% annuo su computer quantici, biotech, nuovi materiali avanzati, intelligenza artificiale, fotonica e blockchain. Diversamente dal digitale, qui non bastano capitali, buoni cervelli e un po’ di codice, ma ci vogliono capacità di produrre ricerca di base, volontà di risolvere problemi nuovi e soprattutto capitali e competenze in grado di valutare le proposte. Forse anche per questo gli Stati Uniti, che nel settore hanno saputo investire molto anche grazie ad agenzie come Nasa e Darpa, hanno visto scemare la percentuale di aziende deep tech a stelle rispetto al trend globale.
L’Italia, che con il polipropilene isotattico di Giulio Natta ha generato una delle deep tech che più hanno rivoluzionato il mondo moderno, per anni è stata ai margini della partita ma oggi sembra avere le risorse per giocare le sue carte. «Deeptech e trasferimento tecnologico sono le parole chiave del 2021 per due motivi – sottolinea Stefano Peroncini, Ceo di Eureka! Ventures, specializzata nei materiali avanzati - perché abbiamo capito quanto sono vitali la scienza e la tecnologia dei nostri laboratori di ricerca per il progresso e la sopravvivenza delle nostre società e per gli ammontari che avremo a disposizione, anche in Italia. Per la prima volta nel nostro paese si è creata una massa critica di capitali, grazie all’effetto leva delle risorse private sui capitali pubblici, che porta la dotazione investibile in technology transfer e quindi in deep tech ad almeno 1 miliardo di euro».
Il 2020 si è infatti chiuso con l’avvio della Fondazione Enea Tech, che con una dote da 500 milioni di euro da investire nei prossimi 18 mesi è il più importante fondo italiano di technology tranfer centrato, appunto su diverse aree deep. In più è operativa ItaTech, la piattaforma promossa da Cassa Depositi e Prestiti e dal Fondo Europeo per gli investimenti mette in campo altri 280 milioni di cui più di 80 da privati grazie al pooling dei fondi che le afferiscono (Vertis Sgr concentrata sulla robotica, Sofinnova Telethon Fund dedicato a malattie genetiche e rare, Poli 360 Capital Partners concentrato sulla manifattura avanzata, Progress Tech Transfer gestito da Mi.To ed Eureka Ventures). In particolare, i capitali allocati da Fei-Cdp ai gestori debbono essere obbligatoriamente investititi per un minimo del 90% fino anche il 100% in progetti italiani. A queste risorse si sommano i 150 milioni di Cdp Venture Fondo di Fondi Tech Transfer e dagli altri operatori di venture capital che in maniera opportunistica investono in iniziative che nascono nel mondo della ricerca scientifica.
«L’Italia finalmente si sta sbloccando sul fronte del trasferimento delle tecnologie al mercato – osserva Anna Tampieri, presidente di Enea Tech e direttrice dell’Istituto di Scienza e Tecnologia dei Materiali Ceramici del Cnr –. Non è solo una questione di regolamentazioni e normative, anche se queste sono migliorate negli ultimi anni, quanto una tema di cultura portata dai giovani ricercatori che sempre più spesso fanno esperienze all’estero e assimilano modelli anglosassoni». Enea Tech è stata disegnata dal direttore generale Salvo Mizzi proprio sul modello delle agenzie come la Darpa, pensate per sostenere la trasformazione della ricerca di frontiera in innovazioni radicali come Internet, i veicoli autonomi o il sangue artificiale. Diventata operativa a novembre sta già valutando un centinaio di progetti e punta a un primo round di investimenti da 10-15 milioni su 4-5 progetti più grandi oltre a distribuire seed da 500mila euro a un numero molto più vasto di startup.
«Si tratta di una transizione epocale per il sistema italiano – sottolinea Luigi Nicolais, ex presidente del Cnr e oggi presidente di Materias, che costruisce modelli di business integrati dalla startup allo scale-up nell’ambito dei nuovi materiali – perché è l’occasione per mettere a sistema la qualità dei nostri scienziati che nelle classifiche Erc svettano anche sui tedeschi e scuotere i nostri imprenditori abituati a investire con basso rischio in tecnologie vicine al mercato». Certo le difficoltà restano, non ultime le metriche che spingono i ricercatori universitari a produrre innovazioni incrementali piuttosto che radicalmente nuove e alla proprietà intellettuale che spesso rimane in mano agli atenei, ma il meccanismo sembra sbloccato.
«Come investitore – sottolinea Peroncini - penso che il deep tech sia oggi una grande opportunità, a patto di avere le competenze per comprenderlo e valutarlo e risorse finanziarie adeguate per sostenere i percorsi di valorizzazione di ricerca scientifica e di innovazioni che mediamente richiedono tempi più lunghi di startup più tradizionali. Gli esempi sono già intorno a noi. Proprio pochi giorni fa, tramite lo European Innovation Council Fund, la Commissione Europea ha annunciato il suo primo investimento in equity in 42 startup che riceveranno 178 milioni di euro per sviluppare innovazioni in ambito salute, circular economy, advanced manufacturing e altre aree di punta. È un trend in crescita: da dicembre 2019, lo European Innovation Council Accelerator ha selezionato 293 società per ricevere finanziamenti per oltre 563 milioni di euro. Oggi l’Italia può giocare la sua partita».
á@guidoromeo
Tra Enea Tech, Fei, Cdp e Cdp Venture arrivano capitali che potranno fare da leva per i privati