SAMI MODIANO, L’ORRORE NAZISTA E LA MISSIONE DI RICORDARE
Sami Modiano ha compiuto l’anno scorso novant’anni. Io, in “Tana libera tutti”, l’ho raccontato bambino. Quando lo abbiamo festeggiato, con la comunità ebraica, lo guardavo e pensavo ai suoi occhi. A quello che avevano visto, all’orrore indicibile che avevano conosciuto quando lui era solo un bambino. E nel dover raccontare la sua storia ho cercato un punto di equilibrio tra la durezza, anzi la spietatezza di quello che dovevo narrare – storia vera, vissuta – e la sensibilità di chi ora comincia ad affacciarsi alla vita e a capirne la complessità.
Ma i bambini, almeno nell’età dei giovani a cui il libro è rivolto, non sono meno degli adulti, non hanno bisogno che gli si racconti un mondo inventato, a tinte pastello, fatto di persone che sorridono sempre e che sempre vogliono bene all’altro. I bambini sono persone piene di domande, di curiosità, di autonomi punti di vista. Non sono adulti bonsai, non sono argilla da modellare con le mani di un genitore. Sono persone, da rispettare. Da ascoltare. D’altra parte la durezza dell’esperienza umana che stanno vivendo da un anno a questa parte – la paura, l’isolamento, la solitudine – li ha spinti a porsi interrogativi e a cercare risposte. Non necessariamente rassicurazioni, bastano delle spiegazioni.
Ho pensato, mentre scrivevo, ai loro occhi. Mentre scorreranno le pagine del volume, guarderanno i bei disegni di Giovanni Scarduelli, rimireranno le foto che documentano la vita di Sami.
Perché Sami era un ragazzo come loro. Aveva tredici anni e girava felice per Rodi. Sua mamma era morta da poco e lui ha sempre pensato che in fondo sia stato meglio così. Piuttosto che la deportazione, il viaggio, la selezione, la morte di suo marito e sua figlia. Sami dice sempre che almeno c’è un luogo dove lei riposa, dove lui può portare dei sassi per onorarla. Rodi era la sua “isola delle rose”. Era il luogo della sua infanzia, dei suoi giochi, dei suoi amici. In quell’isola ha conosciuto la guerra, il problema del cibo, l’impoverimento della sua famiglia a seguito delle leggi razziali. Perché tutto parte da lì, dal momento in cui il regime fascista italiano, dopo un’odiosa campagna volta a denigrare, isolare, indicare come pericolo pubblico gli ebrei, decise di estrometterli dalla vita civile. Impedendo loro di vivere, lavorare, studiare.
E proprio il non aver potuto completare gli studi è uno dei maggiori crucci di Sami, lo racconta sempre ai ragazzi delle scuole ai quali non smette di rivolgersi quando vanno insieme a lui a Birkenau o quando si reca nelle loro classi, le centinaia che ha visitato dal 2005. Per Sami bambino il primo momento drammatico è stato quando fu cacciato da scuola, umiliato dal suo maestro davanti ai suoi compagni, quando si è sentito in colpa di non sapeva cosa e ha chiesto al padre ragione della sua espulsione. Quel giorno tutto ha cominciato a finire, per lui. Il resto è stato un precipitare, giorno dopo giorno, verso il fondo scuro dell’inferno.
Proviamo a immaginare – con la considerazione che del valore della vita umana hanno ora generazioni che hanno vissuto settant’anni in pace, senza guerre, bombardamenti, baionette – cosa possa significare per un bambino di tredici anni e mezzo esser portato via dalla sua casa, dalla sua terra, catapultato su una imbarcazione sporca di letame, caricato su un treno piombato con altre centinaia di persone che piangono, si lamentano, muoiono. Pensiamo a cosa deve essere, per un ragazzo, passare dalla voce dei familiari agli ordini delle SS.
E l’arrivo sul binario della morte, l’impatto con la violenza della selezione, un gesto del pollice che decide del destino di un essere umano, la separazione prima dalla sorella amatissima, poi dal padre. E la vita quotidiana nel campo di sterminio: la risposta agli appelli degli aguzzini con il freddo e la paura, il riposo sui tavolacci di legno, il cibo inesistente, il lavoro durissimo, la percezione della morte come di una possibilità vicina, reale. In qualche caso come un sollievo da tanta pena. E poi veder scomparire prima la propria sorella e poi il proprio padre. E trovarsi soli, completamente soli, in quell’inferno.
Questo è stato l’inizio della vita di Sami Modiano, ragazzo di quattordici anni che, alla liberazione del campo, è tornato al mondo senza nessuno a cui chiedere un consiglio, un aiuto.
Avrebbe tutte le ragioni, Sami, per odiare. Invece è la persona più dolce, accogliente, generosa che abbia mai incontrato. Nel campo conobbe un ragazzo solo come lui, Piero Terracina. Lo ha rincontrato molti anni dopo e lui lo ha convinto a tornare ad Auschwitz. Eravamo insieme, quel giorno. Ricordo la sua emozione, il suo malore quando arrivava nei luoghi del suo martirio e poi la luce nei suoi occhi, quegli occhi bambini che avevano visto l’inferno, quando percepiva la reazione e l’emozione dei ragazzi ai quali lui parlava. Da allora, come dice sempre Sami, ha capito che quella era la sua missione, quella era la ragione per la quale era sopravvissuto: «Raccontare, testimoniare». Fare memoria. Nello stupore, nella partecipazione, nel pianto dei ragazzi ai quali racconta la storia narrata in “Tana libera tutti” Sami trova oggi energia per continuare la sua missione. La sua vita, la sua odissea sono la confutazione in carne, ossa, occhi, delle teorie pelose dei negazionisti. Sami era lì, ragazzo, nella più colossale macchina di sterminio della storia. Quella prodotta dalla strategia decisa dai nazisti nella conferenza di Wansee del 1942, smascherata a Norimberga, nel processo Eichmann, ma anche dalla semplice testimonianza di bambini che sono precipitati in quella buca dell’uomo.
La negazione dell’altro, la demonizzazione della diversità presunta rispetto a un “normotipo” deliberato dal dittatore di turno sono un demone che ciclicamente ricompare nella storia dell’uomo. Nulla è mai stato come la Shoah, ma anche nel recente passato abbiamo visto fosse comuni, persecuzioni razziali o religiose nel nome di un pensiero unico che sempre ha alimentato le più terribili tragedie della Storia.
“Tana libera tutti” è la storia di un ragazzo come tanti. Marchiato sul braccio e negli occhi. Ma capace di trasformare la rabbia e l’odio in gentilezza e generosità. L’altruismo di chi ha la forza titanica di attraversare la propria pena e di donare il proprio dolore per evitare che quell’orrore si ripeta.