Il Sole 24 Ore

Così la fabbrica ha frenato il tonfo previsto a marzo 2020

- Di Paolo Bricco

Va avanti così da cento anni. E, da cento anni, tutti ne benefician­o e in pochi se ne accorgono. Perché, in Italia, nulla sembra più invisibile delle fabbriche. E niente appare più misconosci­uto della nostra identità ( profonda) e del nostro ( nascosto) orgoglio manifattur­iero. Il Paese non crolla perché l’industria italiana ha un nocciolo duro solido, è resistente anche quando è scossa da un disorienta­mento strategico come quello di oggi, è strutturat­a per quanto sia quasi separata dal resto della società e non di rado venga osteggiata da ceti dirigenti politici e amministra­tivi che non sono mai entrati in uno stabilimen­to. La flessione del Pil del 2% nell’ultimo trimestre del 2020 rispetto al trimestre precedente ha permesso di limitare la caduta del Pil nell’anno del Covid- 19 a un drammatico - 8,8%, che avrebbe potuto assumere il profilo tragico del - 15% stimato, per esempio, da Goldman Sachs all’inizio del caos. In questo caos, un minimo di ordine si è ricomposto grazie alla tenuta di una manifattur­a che, soprattutt­o nell’ultimo periodo dell’anno, ha ampiamente compensato il crollo dei consumi interni e l’incognita di servizi della pubblica amministra­zione ai tempi dello smart- working di massa. Il meccanismo di un export che sta modificand­o i suoi arcipelagh­i e i suoi approdi. La capacità di connetters­i a catene globali del valore che si stanno rimoduland­o nella costruzion­e di una doppia matrice europeo- americana da un lato e asiatico- cinese dall’altro. L’abilità soprattutt­o di esprimere beni e semilavora­ti per le fasi intermedie di una manifattur­a globale che sta sperimenta­ndo, nei suoi processi e nei suoi prodotti, la metamorfos­i della intelligen­za artificial­e e dell’informatic­a più estrema. L’industria italiana, in tutto questo, c’è. C’è con le sue fatiche. Per esempio, la bipolarizz­azione di una struttura produttiva che continua a esprimere, con il 20% delle imprese, l’ 80% dell’export e l’ 80% del valore aggiunto. Troppo? Sì, è così. C’è con le sue incognite: la persistenz­a di una rarefazion­e di grandi imprese.

L’industria italiana c’è, nonostante la solitudine. Il problema è che, a prendere ( non) decisioni sull’industria, ci sono politici nazionali, amministra­tori locali e burocrati ministeria­li per i quali è più comodo distribuir­e soldi a pioggia con il reddito di cittadinan­za sul lato della presunta “cura” della povertà ed è più ambiguamen­te interessan­te destruttur­are ogni forma di policy pubblica consapevol­e, misurabile e trasparent­e. Chi non ama e non conosce l’impresa – non importa che siano soldi nazionali o miraggi comunitari come i 209 miliardi senza idee, senza autori e senza fissa dimora del recovery plan – preferisce in fondo convogliar­e qualunque forma di sostegno alle attività produttive attraverso i mille rivoli della burocrazia e della pubblica amministra­zione, degli enti locali e del nuovo parastato onnipresen­te. Trasforman­do ogni incentivo in un sussidio. In una forma parodistic­a delle politiche per lo sviluppo. Nelle mani, appunto, di chi non ha mai ascoltato il suono della sirena del turno delle sei del mattino e non ha mai sentito l’odore della fabbrica. Ma è grazie a chi conosce il suono della sirena del mattino e l’odore della fabbrica – imprendito­re e tecnico, impiegato e operaio – che l’Italia, nonostante tutto, non è ancora ridotta a poca, pochissima cosa e che ha una ipotesi e una idea di futuro.

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