Così la fabbrica ha frenato il tonfo previsto a marzo 2020
Va avanti così da cento anni. E, da cento anni, tutti ne beneficiano e in pochi se ne accorgono. Perché, in Italia, nulla sembra più invisibile delle fabbriche. E niente appare più misconosciuto della nostra identità ( profonda) e del nostro ( nascosto) orgoglio manifatturiero. Il Paese non crolla perché l’industria italiana ha un nocciolo duro solido, è resistente anche quando è scossa da un disorientamento strategico come quello di oggi, è strutturata per quanto sia quasi separata dal resto della società e non di rado venga osteggiata da ceti dirigenti politici e amministrativi che non sono mai entrati in uno stabilimento. La flessione del Pil del 2% nell’ultimo trimestre del 2020 rispetto al trimestre precedente ha permesso di limitare la caduta del Pil nell’anno del Covid- 19 a un drammatico - 8,8%, che avrebbe potuto assumere il profilo tragico del - 15% stimato, per esempio, da Goldman Sachs all’inizio del caos. In questo caos, un minimo di ordine si è ricomposto grazie alla tenuta di una manifattura che, soprattutto nell’ultimo periodo dell’anno, ha ampiamente compensato il crollo dei consumi interni e l’incognita di servizi della pubblica amministrazione ai tempi dello smart- working di massa. Il meccanismo di un export che sta modificando i suoi arcipelaghi e i suoi approdi. La capacità di connettersi a catene globali del valore che si stanno rimodulando nella costruzione di una doppia matrice europeo- americana da un lato e asiatico- cinese dall’altro. L’abilità soprattutto di esprimere beni e semilavorati per le fasi intermedie di una manifattura globale che sta sperimentando, nei suoi processi e nei suoi prodotti, la metamorfosi della intelligenza artificiale e dell’informatica più estrema. L’industria italiana, in tutto questo, c’è. C’è con le sue fatiche. Per esempio, la bipolarizzazione di una struttura produttiva che continua a esprimere, con il 20% delle imprese, l’ 80% dell’export e l’ 80% del valore aggiunto. Troppo? Sì, è così. C’è con le sue incognite: la persistenza di una rarefazione di grandi imprese.
L’industria italiana c’è, nonostante la solitudine. Il problema è che, a prendere ( non) decisioni sull’industria, ci sono politici nazionali, amministratori locali e burocrati ministeriali per i quali è più comodo distribuire soldi a pioggia con il reddito di cittadinanza sul lato della presunta “cura” della povertà ed è più ambiguamente interessante destrutturare ogni forma di policy pubblica consapevole, misurabile e trasparente. Chi non ama e non conosce l’impresa – non importa che siano soldi nazionali o miraggi comunitari come i 209 miliardi senza idee, senza autori e senza fissa dimora del recovery plan – preferisce in fondo convogliare qualunque forma di sostegno alle attività produttive attraverso i mille rivoli della burocrazia e della pubblica amministrazione, degli enti locali e del nuovo parastato onnipresente. Trasformando ogni incentivo in un sussidio. In una forma parodistica delle politiche per lo sviluppo. Nelle mani, appunto, di chi non ha mai ascoltato il suono della sirena del turno delle sei del mattino e non ha mai sentito l’odore della fabbrica. Ma è grazie a chi conosce il suono della sirena del mattino e l’odore della fabbrica – imprenditore e tecnico, impiegato e operaio – che l’Italia, nonostante tutto, non è ancora ridotta a poca, pochissima cosa e che ha una ipotesi e una idea di futuro.