La crisi in Myanmar mette in allarme le multinazionali
Riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza Onu
Gli Stati Uniti si preparano a tagliare i finanziamenti al Myanmar: lo ha comunicato ieri il dipartimento di Stato, dopo che lunedì il presidente, Joe Biden, ha minacciato il ripristino delle sanzioni che colpivano il Paese ai tempi della dittatura della giunta. E il rischio di un nuovo isolamento preoccupa gli investitori.
Quello di Washington è un passaggio automatico, dopo il golpe: lunedì all’alba, la leader del Governo civile, Aung San Suu Kyi, è stata presa in custodia dai militari, che hanno assunto il controllo del Paese. Secondo un funzionario della National League for Democracy, Suu Kyi sarebbe prigioniera nella sua abitazione, ma non ci sono conferme ufficiali sul suo luogo di detenzione. Gli Stati Uniti non taglieranno, però, l’assistenza umanitaria.
Sul Myanmar si apre un confronto internazionale: la questione è all’esame del Consiglio di sicurezza Onu, dove il Regno Unito guida il fronte dei Paesi che vorrebbero dare un segnale forte a favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Ci sono però le resistenze della Cina. Già lunedì, il regime di Pechino si era smarcato dalla netta condanna espressa da Onu, Ue, Usa, Giappone ( tra gli altri). E ieri, il ministero degli Esteri ha dichiarato che « tutte le azioni della comunità internazionale devono contribuire alla stabilità politica e sociale del Myanmar, così da prevenire che le tensioni si inaspriscano » .
Pechino ha promesso di donare il vaccino per il Covid- 19 al Paese, che, neanche a dirlo, è “beneficiario” degli investimenti per la Nuova Via della Seta. Alla fine dello scorso anno, la Cina era il secondo più grande investitore del Myanmar dopo Singapore, con 21,5 miliardi di dollari. Pechino rappresenta anche circa un terzo di tutto il commercio del Paese. « Se non ci muoviamo bene, il Myanmar potrebbe allontanarsi ulteriormente dalle nazioni democratiche e liberali e stringersi alla Cina. E questo sarebbe un rischio per la regione » , ha avvisato il ministro della Difesa giapponese, Yasuhide Nakayama.
Le sanzioni internazionali sono un’incognita pesante per gli investitori e sono già scattati i campanelli di allarme nei quartier generali delle multinazionali, che hanno investito nel Paese in questi anni.
La giapponese Suzuki ha annunciato lo stop alla produzione nei due stabilimenti di Yangon, per garantire l’incolumità dei dipendenti. Nel 2019, il gruppo controllava il 60% del mercato birmano. Nei piani della casa automobilistica ci sarebbe un terzo impianto produttivo. La società thailandese delle costruzioni Amata ha a sua volta annunciato che rallenterà la realizzazione di una zona industriale a Yangon, per il timore di sanzioni e disordini. Anche l’australiana Woodside Petroleum ha deciso di fermare alcune delle sue attività nel Paese. Woodside collabora con la francese Total e con il conglomerato birmano Mprl E& P nello sfruttamento del primo giacimento di gas sottomarino ad alta profondità. Dal 2014 ha investito più di 400 milioni di dollari in Myanmar.