Il Sole 24 Ore

La crisi in Myanmar mette in allarme le multinazio­nali

Riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza Onu

- Gianluca Di Donfrances­co

Gli Stati Uniti si preparano a tagliare i finanziame­nti al Myanmar: lo ha comunicato ieri il dipartimen­to di Stato, dopo che lunedì il presidente, Joe Biden, ha minacciato il ripristino delle sanzioni che colpivano il Paese ai tempi della dittatura della giunta. E il rischio di un nuovo isolamento preoccupa gli investitor­i.

Quello di Washington è un passaggio automatico, dopo il golpe: lunedì all’alba, la leader del Governo civile, Aung San Suu Kyi, è stata presa in custodia dai militari, che hanno assunto il controllo del Paese. Secondo un funzionari­o della National League for Democracy, Suu Kyi sarebbe prigionier­a nella sua abitazione, ma non ci sono conferme ufficiali sul suo luogo di detenzione. Gli Stati Uniti non taglierann­o, però, l’assistenza umanitaria.

Sul Myanmar si apre un confronto internazio­nale: la questione è all’esame del Consiglio di sicurezza Onu, dove il Regno Unito guida il fronte dei Paesi che vorrebbero dare un segnale forte a favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani.

Ci sono però le resistenze della Cina. Già lunedì, il regime di Pechino si era smarcato dalla netta condanna espressa da Onu, Ue, Usa, Giappone ( tra gli altri). E ieri, il ministero degli Esteri ha dichiarato che « tutte le azioni della comunità internazio­nale devono contribuir­e alla stabilità politica e sociale del Myanmar, così da prevenire che le tensioni si inasprisca­no » .

Pechino ha promesso di donare il vaccino per il Covid- 19 al Paese, che, neanche a dirlo, è “beneficiar­io” degli investimen­ti per la Nuova Via della Seta. Alla fine dello scorso anno, la Cina era il secondo più grande investitor­e del Myanmar dopo Singapore, con 21,5 miliardi di dollari. Pechino rappresent­a anche circa un terzo di tutto il commercio del Paese. « Se non ci muoviamo bene, il Myanmar potrebbe allontanar­si ulteriorme­nte dalle nazioni democratic­he e liberali e stringersi alla Cina. E questo sarebbe un rischio per la regione » , ha avvisato il ministro della Difesa giapponese, Yasuhide Nakayama.

Le sanzioni internazio­nali sono un’incognita pesante per gli investitor­i e sono già scattati i campanelli di allarme nei quartier generali delle multinazio­nali, che hanno investito nel Paese in questi anni.

La giapponese Suzuki ha annunciato lo stop alla produzione nei due stabilimen­ti di Yangon, per garantire l’incolumità dei dipendenti. Nel 2019, il gruppo controllav­a il 60% del mercato birmano. Nei piani della casa automobili­stica ci sarebbe un terzo impianto produttivo. La società thailandes­e delle costruzion­i Amata ha a sua volta annunciato che rallenterà la realizzazi­one di una zona industrial­e a Yangon, per il timore di sanzioni e disordini. Anche l’australian­a Woodside Petroleum ha deciso di fermare alcune delle sue attività nel Paese. Woodside collabora con la francese Total e con il conglomera­to birmano Mprl E& P nello sfruttamen­to del primo giacimento di gas sottomarin­o ad alta profondità. Dal 2014 ha investito più di 400 milioni di dollari in Myanmar.

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