QUELL’ANNO TORNANTE DELLA STORIA
Oggi, a cent’anni di distanza dal 1921, vale la pena di rievocare quanto accadde in quel tornante. Sia perché l’aggravamento della crisi economica avvenuto allora concorse a minare le fondamenta del sistema liberale; sia perché certi retaggi e nodi strutturali venuti al pettine in pieno nel corso di quell’anno sarebbero tornati alla ribalta, sia pur con alcune varianti, anche in altri frangenti, esercitando un peso cruciale sulle vicende e le prospettive dell’economia e della società italiana.
È vero che durante la Grande guerra gli Stati Uniti erano diventati una sorta di granaio, arsenale e banchiere non solo per l’Italia, ma anche per la Francia e la Gran Bretagna; e che pure i loro governi attendevano perciò il pagamento delle indennità imposte alla Germania dal trattato di Versailles per assolvere ai cospicui impegni finanziari assunti con Washington. Sennonché l’Italia aveva dovuto già intaccare una quota notevole delle proprie riserve auree e le nostre rivendicazioni su Fiume e la costa dalmata si erano scontrate con la risoluta opposizione del presidente americano Wilson, mentre un rinnovo dei crediti da Oltreatlantico risultava sempre più indispensabile sia per il risanamento del bilancio statale che per la riconversione post-bellica.
Inoltre era venuta meno la possibilità di contare sulle rimesse degli emigranti per il saldo della bilancia dei pagamenti; né si poteva fare affidamento su una vigorosa ripresa delle esportazioni per ridurre un disavanzo commerciale superiore di quasi tre volte quello del 1913, in quanto dall’estate del 1920 era cessata la congiuntura espansiva apertasi dopo la fine delle ostilità ed era sopraggiunta una recessione economica su scala internazionale.
D’altro canto, se la grande industria era tornata ad agire nel campo della produzione e degli scambi senza più i vincoli del periodo bellico, seguitava a sbarrare il passo ai progetti governativi sull’avocazione dei sovraprofitti di guerra e per un’imposta straordinaria sul capitale. Così che i 20 miliardi raccolti attraverso un ennesimo prestito nazionale avevano rappresentato solamente una boccata d’ossigeno e non tanto un contributo di rilievo per cominciare a rimettere in sesto i conti pubblici disastrati, bloccare l’inflazione e migliorare il corso del cambio.
Dopo che Francesco Saverio Nitti aveva cercato, durante due mandati consecutivi a capo del governo, di assecondare un rilancio del sistema produttivo e spostato nel contempo l’asse della vita politica a sinistra per contenere un’ondata di crescente malessere e conflittualità sociale, nel giugno 1920 era tornato al potere Giovanni Giolitti, per lungo tempo vilipeso e posto al bando per i suoi trascorsi neutralistici, ma adesso indicato da più parti come l’unico uomo politico in grado di scongiurare il pericolo che il Paese andasse alla deriva. E, a giudicare da come era riuscito a evitare (in base a un accordo con la Cgdl per il “controllo sindacale” sulla gestione aziendale dei principali stabilimenti) che l’occupazione operaia delle fabbriche avvenuta in settembre sfociasse in un moto rivoluzionario, lo statista piemontese aveva dato prova ancora una volta della sua proverbiale abilità tattica e sagacia politica.
Ma frattanto si era interrotto il flusso di capitali dagli Stati Uniti al Vecchio continente e si era aggravata ulteriormente, ai vertici del firmamento industriale, la situazione sia dell’Ansaldo che dell’Ilva, indebitate fino al collo e alla ricerca affannosa di forti dosi di liquidità. Di qui la scalata alle banche al fine di disporre alle migliori condizioni dei depositi di migliaia di correntisti. Ciò che avevano fatto con lo stesso intento pure la Fiat e altre importanti imprese, a corto di mezzi finanziari necessari al loro fabbisogno.
Neppure l’aumento dei dazi all’importazione a favore di alcune produzioni (come i macchinari e gli autoveicoli) e quindi non più circoscritto al tradizionale comparto tessile, e nemmeno l’accantonamento, da parte di Giolitti, di alcune misure fiscali (come la nominatività dei titoli di società industriali e banche d’affari e un’imposta straordinaria e progressiva sul patrimonio) valsero ad arrestare il dissesto del colosso della siderurgia integrale, e la caduta, dal piedistallo del capitalismo italiano, dell’Ansaldo nonché il crollo della Banca Italiana di Sconto che aveva cercato fino all’ultimo, finendo così col dissanguarsi, di sorreggere il gruppo cantieristico-metalmeccanico genovese, presente in altri primari settori di attività.
Di fatto, a riprova di quanto pesassero sul nostro sistema economico, insieme alla carenza di materie prime, la scarsità di capitali e di investimenti, fu il suo improvviso risveglio, dall’estate del 1921, in seguito all’impetuoso sviluppo degli Stati Uniti. Poiché l’Italia ebbe così modo di riannodare le relazioni e i canali di accesso agli ambienti finanziari d’Oltreatlantico. Ma intanto era franata una grossa fetta nella nostra economia.