La valuta brucia energia quanto l’Argentina ( e spesso va a carbone)
Il Bitcoin? Ormai consuma elettricità ai ritmi della Norvegia o dell’Argentina: oltre 120 Terawattora all’anno. E non si tratta di energia pulita, perché per il 60% proviene da fonti fossili, soprattutto carbone. Le ultime stime in circolazione, elaborate in questi giorni dall’Università di Cambridge, fotografano in modo impietoso quello che in fondo è il segreto di Pulcinella. I mega computer per il mining di criptovalute non funzionano a pedali, ma si attaccano alla corrente, molto spesso in Cina. E più macinano dati, più inquinano.
Appena tre anni fa il settore bruciava un decimo dell’energia utilizzata oggi. A guadagnarsi l’attenzione tuttavia sono altri grafici, quelli che mostrano le vertiginose performance di un asset finanziario che fa brillare gli occhi a qualsiasi investitore: da dicembre il Bitcoin ha quasi triplicato il valore, superando 57mila dollari.
Le crescenti emissioni di gas serra sono una verità scomoda, spesso trascurata anche dagli ambientalisti più zelanti, ma sull’onda del successo delle criptovalute – ormai sdoganate anche da grandi banche e istituzioni finanziarie – il dibattito inizia a risvegliarsi. Diversi analisti hanno alzato un sopracciglio di fronte alle prodezze di Elon Musk, che ha rivelato di aver investito 1,5 miliardi di dollari in Bitcoin per diversificare la liquidità di cassa di Tesla. L’imprenditore dell’auto elettrica, portato in palmo di mano dai paladini della finanza sostenibile, non sembra essersi posto il problema delle emissioni di CO2 delle criptovalute, cresciute al punto da rappresentare un ostacolo nella battaglia contro il cambiamento climatico.
Musk non è l’unico a comportarsi in modo contraddittorio. Persino Blackrock, gigante dell’asset management, da un lato non perde occasione per fustigare le società che non abbracciano la causa della decarbonizzazione, ma dall’altro annuncia di aver deciso di investire anche in criptovalute.
L’impronta carbonica del Bitcoin è tutt’altro che trascurabile. Nel 2019 – quando capitalizzava quasi dieci volte di meno rispetto a oggi – aveva immesso in atmosfera 37 milioni di tonnellate di CO2, quanto la Nuova Zelanda, stima Digiconomist. Per il mining viene spesso impiegata energia idroelettrica, purché disponibile a basso costo ( come in Siberia, in Canada o su base stagionale in alcune aree della Cina). Ma l’intermittenza di eolico e solare non è apprezzata: « Di solito viene preferita l’energia da fonti fossili, più economica e stabile » , sostiene Alex De Vries, fondatore della società di ricerca e docente alla Vrije Universiteit di Amsterdam.
Ogni singola transazione in Bitcoin, calcola Digiconomist, pesa sull’ambiente quanto 700mila effettuate con carta di credito. E poi c’è il problema dei rifiuti elettronici: i miner hanno bisogno di computer sempre più veloci e potenti, quindi li cambiano spesso, buttando via materiali per 11mila tonnellate l’anno, un volume di e- waste pari a quello del Lussemburgo.
Le stime sugli impatti ambientali del settore variano a seconda delle metodologie adottate. Ma è probabile che siano tutte sbagliate per difetto: i consumi di energia, secondo uno studio della Tum School of Management di Monaco, sono in realtà del 50% superiori rispetto alle cifre che circolano, quasi sempre riferite solo al Bitcoin. Solo l’Ethereum si stima abbia bruciato 22 TWh l’anno scorso. Ma nel mondo ci sono almeno 500 criptovalute e token.
Ogni singola transazione in Bitcoin pesa sull’ambiente quanto 700mila effettuate con carta di credito