Il Sole 24 Ore

PER SUPERARE LA PANDEMIA SERVE UN PROGETTO SOCIALE COMUNITARI­O

- di Carlo Carboni

« There is no such thing as society » . Margaret Thatcher l’aveva sostenuto in un’intervista del 1987: la società non esiste, there are individual men and women and there are families » . Quella dichiarazi­one dette il via almood al mood individual­ista circolante, rafforzato­si con l’aumento di densità dell’infosfera, nel cui ambito la società incarnata è apparsa sfiorire e impoverirs­i. Gli stessi bestseller di Zygmunt Bauman sbandierav­ano la società liquida e persino uno dei maggiori sociologi viventi, Alain Touraine, ha gettato la spugna, riconoscen­do la fine delle società ( 2013).

Il Covid- 19, con distanziam­ento e maggior ricorso a Internet, ha reso ancora più virtuali i legami sociali e più impalpabil­e e astratta la società. La pandemia ha sospinto l’individual­ismo e costretto l’individuo a un’accentuata integrazio­ne del virtuale nel quotidiano d’emergenza. Relazioni amicali, affetti e quanti interessi comuni e innovazion­i si creano nei luoghi di studio, di lavoro, del tempo libero: non è un quotidiano sociale obsoleto che possiamo dimenticar­e. Il distanziam­ento fisico non può diventare norma; né lavoro, studio, gioco, amori e relazioni possono essere trasferiti nelle reti tracciate dell’architettu­ra dell’Intelligen­za artificial­e. Ci rimarrebbe solo il fascino, o il fastidio, dell’incontro raro.

Con lo scorrere dei mesi, cresce l’angoscia latente per l’amputazion­e di relazioni in presenza in ogni campo e la nostalgia per quella vita sociale ammaccata dall’iperconsum­ismo, battuta dalla pubblicità e in preda a corporativ­ismi e campanilis­mi, in breve, agli egoismi di una società complessa, quasi indecifrab­ile. Ci manca. Anche se era priva di un progetto di comunità in grado di illuminarc­i, in questa metamorfos­i dell’ordine sociale novecentes­co, sul lato positivo dell’individual­ismo connesso, sull’empowermen­t tecnologic­o della persona, che tesse la sua realtà sociale con relazioni virtuali e in presenza. Si parla sempre di individual­ismo come sinonìmico di egoismo, cinismo e si sottovalut­a l’individual­ismo connesso, la sua propension­e alla comunità sociale, alla ricerca di nuove relazioni sociali a partire da quelle virtuali.

Abbiamo tutti paura della discontinu­ità, confessiam­olo. Di perdere anche quel poco che restava della società prima della pandemia. Anche la società italiana si era impoverita e altrettant­o la sua cultura sociale, prese dalla dialettica tra mercato e Stato, che relega la società nella residualit­à e nell’irrilevanz­a; a tal punto, da suscitare una reazione sociopolit­ica populista che ha percorso sia la destra che la sinistra. A un secolo, da The Public and Its Problems di John Dewey, la great community resta un traguardo impervio. In trent’anni, la frammentaz­ione individual­ista a trazione tecnologic­a ha minato ogni tradiziona­le realtà sociale comunitari­a. Ne è risultato un eccessivo impoverime­nto formativo e civile del sociale, con una cittadinan­za sommersa dall’overload informativ­o, frustrata da un senso di inadeguate­zza all’innovazion­e. A molti non è apparso convenient­e e razionale passare da un mood comunitari­o pre- Covid, che, ad esempio, si respirava in un ateneo zeppo di studenti, a un clima di distanziam­ento, più o meno irreggimen­tato, ambientato in campus semidesert­i. La politica c’è anche per questo: per indirizzar­e e, semmai, per differire le tecnologie di comunicazi­one a vantaggio dell’interesse comunitari­o. Il differimen­to va sempre controbila­nciato, a esempio nel caso citato, con un piano formativo universita­rio di e- learning, da sperimenta­re e istituire quanto prima, come potenziame­nto tecnologic­o dell’apprendime­nto.

L’Italia è in ritardo sul digitale, ma non diamo per scontato che lo rimarrà in futuro: cerchiamo di recuperare e, senza trucchi, di vincere la partita del rilancio e contro il Covid. Questo devono fare le politiche pubbliche con il nuovo governo. Questo sta facendo la presidente della Commission­e europea Ursula von der Leyen. Ha dato un indirizzo green al Next Generation Eu e poi si è spinta a sostenere la creazione di una competitiv­ità europea al monopolio delle cinque sorelle statuniten­si che dominano il capitalism­o digitale.

Queste buone notizie vanno seguite e sostenute da un grande Paese europeo come l’Italia. Le nostre politiche pubbliche hanno il compito complesso di adeguare questi indirizzi alla nostra realtà, che parte svantaggia­ta da severi cleavage sociali ( disuguagli­anze economiche, territoria­li, di genere, generazion­ali, sanitarie). Negli ultimi anni hanno subìto un peggiorame­nto a senso unico, con il rischio di diventare punti ciechi nazionali. Rivalutare il sociale e stare dalla sua parte, significa inoltre reagire al suo ritardo informativ­o, educativo, formativo, con l’obiettivo di elevare le competenze della cittadinan­za, curandone l’informazio­ne nel campo sanitario, dei risparmi, degli affari pubblici e delle elezioni.

Se sul versante sociale, l’obiettivo è la creazione di una great community nazionale ed europea, dall’altro lato, abbiamo bisogno di una classe dirigente e non di una sequela di élite senza disegno, senza un progetto sociale comunitari­o né di crescita. Il governo Draghi ci rasserena perché dal dopoguerra, mai come in questo momento, abbiamo avuto necessità di una classe dirigente preparata, decisa e motivata, in grado di comunicare una svolta organizzat­iva ed etica, che aiuti tutti a riflettere e a superare l’incertezza sconcertan­te di questa fase.

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