Mascherine, verifiche dell’antifrode Ue sul certificatore turco
La Universalcert sotto la lente per procedure veloci senza test in laboratorio
La pandemia ha messo in luce le lacune nelle produzioni di molti paesi europei, che di fronte all’emergenza si sono ritrovati senza mascherine, camici, tamponi. Fatto noto. Ma quello che è meno noto è che l’Italia non solo non produce mascherine, dovendo importarle perlopiù dalla Cina, ma ne certifica una minima parte. Uno degli enti certificatori più utilizzati nel 2020 è turco, si chiama Universalcert e pone il marchio Ce 2163, uno dei più diffusi nelle mascherine chirurgiche e Ffp2 distribuite in Italia nell’anno del coronavirus. Un marchio formalmente corretto, visto che l’azienda è autorizzata a lavorare per l’Unione europea grazie ad accordi commerciali, ma probabilmente usato in modo “spregiudicato” durante l’emergenza.
Secondo le ricostruzioni di esperti di settore in Italia e adesso anche dell’ufficio antifrode europeo ( Olaf), i certificati sarebbero stati rilasciati senza controlli approfonditi, talvolta in pochi giorni e solo con l’analisi documentale, senza test in laboratorio. Un sistema evidentemente utilizzato dalle aziende produttrici cinesi e europee per accorciare i tempi: in Italia una corretta procedura ha bisogno di almeno 2 mesi, mentre in Turchia, secondo alcune rivelazioni di esperti del settore, a volte sono bastati due giorni. Quello che l’ente turco avrebbe dichiarato ai suoi interlocutori è che le prove di laboratorio effettuate dagli stessi produttori, magari in Cina, venivano prese per buone.
La Universalcert durante la pandemia ha avuto un’impennata di lavoro, molto più degli altri enti certificatori europei. Da dire che i concorrenti sono pochi in Europa: in Italia ce ne sono quattro, in Francia tre, in Germania cinque e altrettanti in Spagna.
Basta guardare le mascherine acquistabili ovunque, anche su Amazon ( sia chirurgiche che Ffp2) per accorgersi di quanto sia diffuso il marchio Ce 2163.
In alcuni casi sta però emergendo la scarsa qualità del materiale utilizzato. Un’azienda altoatesina ha segnalato le anomalie e ha fatto analizzare mascherine in vendita nei supermercati e nelle farmacie italiane. Nei laboratori di un ente spagnolo la maggior parte dei presidi non hanno superato il test del cloruro di sodio e della paraffina ( filtraggio) e in alcuni casi nemmeno quello del contenimento del respiro. Per la società turca si tratta di una montatura orchestrata dalle concorrenti.
Da sottolineare che nel campo delle mascherine quello della certificazione “affrettata” non è il solo problema. Ci sono anche le false certificazioni o le certificazioni “ambigue”, ovvero sigle che correttamente segnalano che non si tratta di presidi chirurgici, o che mantengono la certificazione cinese, ma che potrebbero essere state vendute in Europa sfruttando l’equivoco che potevano ingenerare negli acquirenti non esperti.
Tra i casi di certificazione falsa c’è quello delle mascherine marcate Lloyds, il nome delle farmacie comunali a Milano e in altre città. Qui sono state per molto tempo vendute mascherine con una certificazione esistente, ma utilizzata per altro tipo di merce. Si è trattato probabilmente di una truffa ai danni dello stesso ente certificatore, e sicuramente ai danni del circuito delle farmacie. Il risultato è che sarebbero state messe in commercio mascherine non in grado di garantire un buon filtraggio. Se non nocive, comunque poco utili.
Italia non solo non produce mascherine ma ne certifica una minima parte. Uno degli enti certificatori più utilizzati nel 2020 è quello turco