Il Sole 24 Ore

IL PIANO PANDEMICO BIS NON È ALL’ALTEZZA

- Di Roberto De Vogli e Piergiorgi­o Gawronski Università di Padova Fondazione Ugo La Malfa

Pochi giorni fa, in ottemperan­za a una sentenza del Tar del Lazio, è stato reso pubblico dal ministero della Salute il nuovo Piano pandemico italiano. Esso rappresent­a un piccolo passo in avanti rispetto alla precedente versione del 2006. Enfatizza l'importanza di munirsi di mascherine e dispositiv­i di protezione individual­e ( Dpi); nuovi posti letto in terapia intensiva; la preparazio­ne di scorte nazionali di farmaci antivirali; la formazione. Si tratta di migliorame­nti rilevanti, specie dal punto di vista della protezione delle risorse più preziose nella lotta contro il virus: il personale sanitario.

Tuttavia, il Piano ancora non fa tesoro delle lezioni dei Paesi più virtuosi. Viene citato un modello – Ciclo della preparedne­ss – elaborato dal Centro europeo per la prevenzion­e e il controllo delle malattie, che include l’analisi delle best practice. Ma in realtà nel nuovo Piano non c’è nessuna analisi, né riferiment­i bibliograf­ici, sull’esperienza di Paesi come Corea del Sud, Vietnam, Singapore, Hong Kong, Taiwan, Finlandia, Norvegia, Australia, Nuova Zelanda, che hanno avuto poche decine o centinaia di vittime. La parola contact tracing appare più volte, ma non esiste alcun accenno a specifici metodi di contact tracing, e a misure per attuarli sul territorio, con la partecipaz­ione della popolazion­e. Mancano dettagli su un piano tamponi in grado di potenziare l’identifica­zione precoce dei contagi. Né si approfondi­scono le tecnologie e le metodologi­e di raccolta e analisi dei dati per valutare l’efficacia degli interventi in aree specifiche, come la scuola, i luoghi di lavoro, le comunità. Non esiste alcuna analisi del potenziale impatto delle politiche sulle disuguagli­anze di salute. Molti obiettivi sono generici, a volte confusi con alcune specifiche azioni per raggiunger­li. Un piano di salute pubblica, tuttavia, necessita di obiettivi Smart ( Specifici, misurabili, raggiungib­ili, realistici e definiti nel tempo).

Rispetto alle bozze circolate in precedenza, manca una frase che aveva suscitato scalpore: « Se le risorse sono scarse, privilegia­re pazienti che possono trarne maggior beneficio » . Effettivam­ente, sembrava una rinuncia a fermare il virus nel territorio, evitando il sovraffoll­amento delle terapie intensive: come alzare bandiera bianca prima di andare in guerra. Nella sostanza, tuttavia, nulla è cambiato. Ma criticare il personale sanitario, costretto ad applicare una specie di darwinismo sociale ai malati, significa non capire la cascata di cause che produce tale aberrazion­e. Da una parte, vi è la riluttanza delle strutture tecnico- scientific­he a combattere il Covid- 19 sul territorio – il Comitato tecnico scientific­o, dominato da clinici, è quasi

IL DOCUMENTO NON VALORIZZA LE STRATEGIE CHE ALL’ESTERO SI SONO RIVELATE PIÙ EFFICACI

del tutto sprovvisto di competenze in epidemiolo­gia, salute pubblica e politiche sanitarie. Dall’altra, potenti lobby economiche continuano a esercitare pressioni sul governo per ritardare oltre ogni ragionevol­e prudenza gli interventi di contenimen­to del Covid- 19.

È significat­ivo che il Cts ancora non recepisca le soluzioni proposte ad esempio da Andrea Crisanti, o dall’Associazio­ne italiana di epidemiolo­gia. Il Paese e la sua dirigenza politica non hanno ancora chiaro che contro il Covid- 19 le strategie di testing, tracing, e sorveglian­za epidemiolo­gica sono le uniche, ma decisive armi per contenere il virus senza lunghi e ripetuti lockdown. Richiedono, certo, investimen­ti immediati in laboratori per produrre tamponi, reagenti, drive- thru & walk- thru, ripotenzia­mento del sistema di contact tracing; e un nuovo sistema informativ­o sanitario per la raccolta dati sulle azioni di sorveglian­za epidemiolo­gica, di testing, tracing, isolamento, quarantene, supportato da sistemi Gps per monitorare i focolai. È inoltre necessario un centro nazionale di epidemiolo­gia e salute pubblica per coordinare tutte queste attività. Le strategie di testing e tracing, se supportate quando necessario da chiusure locali – brevi, tempestive, e decisive – costano meno di 1,8 miliardi l’anno (+ 0,5 miliardi iniziali), costo che si riduce quanto più bassa è la circolazio­ne virale. Nonostante i ritardi accumulati­si, vale ancora la pena fare questi investimen­ti perché: la vaccinazio­ne da sola non basta, e deve essere sostenuta da interventi non- farmacolog­ici sul territorio; l’attuale stillicidi­o di lockdown lockdownno­n non è risolutivo, accresce l’incertezza, ed è molto dannoso per l’economia; il rischio di nuove pandemie sta aumentando ( come spiega David Quammen).

In conclusion­e, è un peccato che – dopo aver a lungo secretato i verbali del Cts – sia stato necessario l’intervento del Tar perché l’Italia venisse a conoscenza del suo Piano pandemico. Venendo meno all’obbligo anche internazio­nale della trasparenz­a, la politica si sottrae alle sue responsabi­lità, ma aumenta il disorienta­mento dell’opinione pubblica, e riduce la qualità delle sue risposte. Pensare di fermare il virus con questo Piano pandemico significa non aver ancora capito come si combatte il Covid- 19. Il virus va combattuto innanzitut­to sul territorio, non negli ospedali. Invece, il nuovo Piano reagisce, e insegue il virus. Non è preventivo, e non valorizza le strategie di salute pubblica che hanno salvato centinaia di migliaia di vite umane nei paesi più virtuosi al mondo. Dal nuovo governo, anche per usare in modo appropriat­o il Recovery Fund, è lecito attendersi un salto di qualità.

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