Nell’Iraq post bellico l’instabilità blocca lo sviluppo
Èsufficiente un elenco sommario dei mali che affliggono l’Iraq per avere un’idea di quanto è complesso il Paese mediorientale dove, a partire da domani, si recherà in visita il Papa. I mali, quelli più noti, sono una crisi economica senza precedenti, un’ondata di proteste popolari, represse nel sangue, una corruzione endemica, il risorgere di cellule dell’Isis, i razzi delle milizie filo- iraniane contro le basi militari americane ( solo ieri l’ultimo lancio). Sullo sfondo la Pandemia di Covid fronteggiata da un sistema sanitario fatiscente ed il ritorno del terrorismo islamico.
L’Iraq non sta certo vivendo il suo periodo più felice. Pare condannato ad una cronica instabilità. D’altronde, dallo scoppio della sanguinosa guerra contro l’Iran ( 1980- 1988) l’ex regno di Saddam Hussein ha conosciuto altri tre grandi conflitti, oltre a disordini vari. Insomma 40 anni di violenze intervallati da pochi anni di relativa stabilità.
Il problema è che, seguendo un copione noto da queste parti, cambiando i governanti il risultato non cambia. Salita al potere nelle elezioni del 2005, la maggioranza sciita non è stata capace di riportare ordine e far decollare l’economia di un Paese con una dote di 143 miliardi di barili di riserve provate, le quinte al mondo. Petrolio di qualità. Con costi di estrazione tra i più bassi al mondo. Il crollo dei prezzi del greggio ha poi inferto il colpo di grazia. I Governi sciiti, fortemente influenzati dall’Iran, hanno poi commesso dure discriminazioni vero le minoranze, in primo luogo quella sunnita, un tempo al potere con Saddam. Nonostante la fuga di molti cristiani caldei e di altre minoranze che popolavano la piana di Ninive, l’Iraq resta un calderone multietnico e multiconfessionale. Entro i suoi confini vivono sciiti, sunniti, ma anche caldei e yazidi. Vi sono arabi, ma anche curdi, turcomanni, shabak e altre etnie.
Per anni il Paese è stato diviso e traumatizzato dalle violenze interconfessionali tra sunniti e sciiti. In questo contesto la protesta popolare che ha preso il via nell’autunno del 2019 ha rappresentato un evento storico. Non era mai accaduto veder manifestare insieme sciiti, sunniti e curdi. Tutti uniti nel protestare contro la corruzione e il caro vita, tutti determinati a chiedere la dimissioni del Governo e la fine dell’ingerenza iraniana. Finora la Primavera irachena non ha ottenuto ciò che chiedeva
Il ritornello è lo stesso. Senza sicurezza non si può avviare lo sviluppo del Paese. Ma la sicurezza è materia complessa. Perché vi sono troppi attori in gioco con interessi in conflitto. Il capitolo milizie sciite filo- iraniane è un tasto dolente. Non solo per gli americani, ma anche per molti partiti politici iracheni, desiderosi di smarcarsi dal giogo iraniano e incamminare il Paese verso un’indipendenza reale. Quelle paramilitari semi- ufficiali, come le Brigate Badr, le Asa’ib Ahl al- Haq e le Kata’ib Hizbollah, si sono rafforzate durante la guerra contro l’Isis, dove hanno contribuito alla riconquista di diverse città e oggi sono radicate nell’apparato della sicurezza nazionale. Tanto da influenzarne anche la vita politica. Le 12 milizie raggruppate sotto l’ombrello delle “Unità di mobilitazione popolare”, un “esercito” di 100mila uomini, hanno ricevuto nel 2019 2,6 miliardi di dollari dal Governo.
A gettare benzina sul fuoco è il “lascito” delle ostilità tra l’Amministrazione dell’ex presidente americano Donald Trump da una parte e il regime iraniano dall’altra: ovvero l’emergere di circa 12 agguerrite milizie che agiscono nell’ombra. L’attacco di ieri contro la base aerea di Ain al- Asad, nella provincia di Anbar, è il quarto in soli 30 giorni condotto con razzi contro le forze Usa in Iraq ( 2.500 militari). Un trend preoccupante.