TUTTI I DUBBI SUL GESTO DEL LEADER CHE LASCIA
Non è chiaro dove portino le dimissioni a sorpresa di Zingaretti. Alcuni dicono che abbiano il “trucco”, quello cioè di vedersele respingere dall’assemblea del partito - il 13 marzo - dove il segretario ha la maggioranza. Si vedrà tra una settimana se hanno ragione i suoi avversari e se davvero è una mossa tattica per attaccare gli ex renziani e suscitare un’onda di reazione a sua difesa proteggendo così la sua leadership. In effetti ieri è partita una valanga di richieste e appelli a ripensarci. Comunque, ammesso pure che sia un gesto di sopravvivenza per far fuori i nemici – e la lotta ci sta in un partito – il punto è che resta il vuoto immenso intorno a una forza politica che non dialoga più con la società.
È pensabile che anche solo una fetta di italiani – in questa fase - si appassionino alle dimissioni di Zingaretti, soprattutto se dureranno una settimana? Il leader Dem dice di preoccuparsi per l’Italia e per questo sceglie di lasciare ma il timore è che quello che sta accadendo regali la perfetta fotografia di ciò che è diventato il Pd: un posto abitato prevalentemente da ceto politico. E che comunica solo al ceto politico. Parla infatti di segreteria, assemblea, congresso, correnti, sottosegretari, di Orlando che deve lasciare il ruolo di vice perché è diventato ministro. L’unico contenuto extra offerto agli italiani è di essere una forza responsabile, cioè qualcosa di piuttosto scontato. Nel frattempo, dal 2018 a oggi ha continuato a perdere alle regionali – Umbria e Marche – mentre ha resistito in Regioni guidate da personalità non proprio assimilabili al Pd zingarettiano come De Luca, Bonaccini o Giani. Intorno alle 4 Regioni rimaste ai Dem, il partito è assediato. Circondato da un centro- destra forte e con la Lega che – ora - si sta giocando la sua partita cercando di intestarsi le scelte del Governo Draghi. Questo è lo stato della principale forza di centro- sinistra, lacerata e incalzata dall’arrivo di Conte.
E così anche l’assemblea verrà monopolizzata dalle dimissioni senza chiedersi “come siamo arrivati fino qui”. La domanda ci sta perché in meno di 15 anni dalla nascita, non si sa cosa sia il Pd. Era nato per essere riformista e fondere due culture politiche, poi la stagione di Veltroni ( prese quasi il 34% contro un Berlusconi fortissimo) è stata sbrigativamente archiviata in nome di una sterzata a sinistra con Bersani, lui – a sua volta – fu battuto da Renzi e di nuovo ci fu un testacoda “ideologico” verso un centro moderato, infine Zingaretti è ritornato alla socialdemocrazia. Insomma, una confusione sui fondamentali in cui tutti si sono smarriti. Torna in mente quello che diceva D’Alema: il Pd è un amalgama mal riuscito.
E se è mal riuscito tra due partiti che erano già alleati da anni, come sarà con i 5 Stelle? Senza un confronto - con un esito aperto su tutto - rimangono solo le cordate, i capi corrente, gli odi personali. Se è poi lo stesso segretario a rappresentare il suo partito come un covo di vipere e di ex renziani, come pensa di attrarre consensi e farsi votare? A meno che abbia deciso di abbandonare davvero.