Biomedicale Mirandola, il polo hi tech contro il virus
La cittadella biomedicale, distrutta dal sisma, è in prima linea nell’emergenza nazionale delle terapie intensive Nel 2020 il valore della produzione è stato di 1 miliardo di euro (+ 11% sul 2019) e la produttività è salita del 30%
L’Italia è un organismo industriale vitale e contraddittorio, malato in alcune parti e sano in altre. Uno dei suoi organi più preziosi e nascosti è il distretto del biomedicale di Mirandola. Il suo sviluppo – nell’anno della pandemia - è stato molto significativo. A Mirandola le imprese del biomedicale sono 98. Otto le multinazionali. Nel 2020, il valore della produzione registrato dalle aziende con la sede sociale nel distretto è stato di mezzo miliardo di euro: l’ 11% in più rispetto all’anno prima. Considerando quelle che hanno sede legale fuori Mirandola, il valore della produzione supera ormai il miliardo. L’evoluzione del fatturato è stata proporzionale a quella degli addetti: oggi a Mirandola lavorano 5.500 persone, impegnate in maggioranza in tre turni per 7 giorni su 7, 500 in più rispetto a prima della pandemia. A seconda delle imprese, la produttività è cresciuta tra il 20% e il 30%, contro un incremento medio annuo dal 2013 del 6%.
La doppia rinascita
Due scosse. Il 20 maggio 2012 alle 5 di notte. Il 29 maggio alle 9 del mattino. L’epicentro del terremoto tra Mirandola, Medolla e San Felice sul Panaro. Il cuore dell’Emilia agricola e industriale. Uno sciame sismico intermittente che ha costretto tutti a dormire per settimane con le porte aperte e le scarpe sul ciglio della stanza. Ventisette le vittime: 24 sotto i crolli, 3 di infarto. La paura di morire. Le case lesionate. Le fabbriche ridotte a cumuli di macerie. La Protezione civile a occuparsi delle abitazioni private. Gli imprenditori, gli operai e i Vigili del fuoco a dedicarsi alle fabbriche: a creare linee produttive parallele, a sistemare ogni angolo non sfregiato dal sisma, a rammendare con cura e amore i capannoni. E, poi, a ricostruire tutto, come prima, anzi meglio di prima.
A raccontarla oggi - nella Italia disperante in cui tutti hanno sempre ragione e niente è mai davvero risolto – sembra una controstoria. A Mirandola il distretto del biomedicale si è ricomposto pezzo per pezzo: ha costruito nuove relazioni tra imprese italiane e multinazionali e ha trovato nuove alchimie nel rapporto tra privato e pubblico. All’arrivo del Covid- 19, è appunto riuscito a soddisfare la domanda di un mercato in cui le ragioni economiche si sono trasfuse nella cifra civile. Perché, nell’ultimo anno, gli apparecchi biomedicali adottati nelle terapie intensive hanno salvato molte vite.
La comunità
Nel gruppo tedesco B. Braun, Giuliana Gavioli è senior vicepresident R& S della divisione B. Braun Avitum che si occupa di terapie in extracorporee croniche e acute. Il gruppo ha 4 siti in Italia, per 800 dipendenti. In 400, a
Mirandola, sviluppano e producono kit e set per la dialisi cronica e acuta e per la aferesi. « Un minuto prima del terremoto – racconta – a Mirandola eravamo in 180. Dal 2013, il gruppo ha investito qui 50 milioni. Lo ha fatto per le competenze naturali di questo territorio. Ma anche per la mobilitazione delle risorse finanziarie pubbliche, concertata dalla Regione EmiliaRomagna con fondi propri e comunitari » . C’è il tema della attrattività, essenziale quando una multinazionale deve decidere dove investire. E c’è il tema dell’anima di una comunità. Dice Gavioli, che è anche presidente della filiera salute di Confindustria Emilia: « Dopo il sisma si è creata una profonda unione di intenti tra le imprese, i lavoratori, la Protezione civile, il governo centrale e l’amministrazione regionale guidata allora da Vasco Errani. Siamo stati, appunto, una comunità. Mai una questione di potere, mai un desiderio di sopraffazione l’uno dell’altro, mai una volta il prevalere dell’incompetenza. Posso dirlo? Ogni tanto rimpiango quei tempi. Perché, ancora una volta, nella crisi più dura il codice italiano ha funzionato. Dopo, tornati alla normalità, non è stato sempre così » .
La pandemia e il futuro
Il primo imprenditore di Mirandola, negli anni Sessanta, si chiamava Mario Veronesi. Classe 1932, è morto nel 2017. Faceva l’informatore medico e il farmacista. Ha fondato sei imprese: « La farmacia di famiglia era in Piazza Mazzini, è stata distrutta dal terremoto, ora è in Via Fulvia ed è gestita da mia sorella Cecilia » , spiega la figlia Francesca. Prima caratteristica di Veronesi: coinvolgere nel capitale i collaboratori. Seconda caratteristica: cedere, al momento opportuno, la sua azienda a una multinazionale in grado di affrontare meglio la maturità organizzativa, industriale e finanziaria e, quindi, fondarne una nuova. Mark Lazerson ( Università di Bologna), Simone Ferriani e Gianni Lorenzoni ( Università di Bologna e Cass Business School di City University London) hanno scritto il paper « Anchor entrepreneurship and industry catalysis: The rise of the Italian Biomedical Valley » . Spiega Lorenzoni: « La forza paradigmatica di questo modello è la sua grande generatività nonostante l’assenza di infrastrutture, materie prime e competenze preliminari nel territorio » .
Le policy
La famiglia Veronesi ha creato la fondazione non profit Maverx- Biomedical Futures. « Papà – spiega Francesca – si è spesso sentito solo nelle sue avventure imprenditoriali. Ha cominciato a esserlo meno quando le istituzioni pubbliche, dopo il terremoto, hanno deciso di portare a Mirandola la scuola postdiploma per il biomedicale, che lui aveva tanto spesso invocato » . L’effetto benefico paradossale attivato dal terremoto è stata la ricomposizione fra privato e pubblico. Il Tecnopolo, aperto nel 2013, ha catalizzato 4,5 milioni pubblici. « Con i nostri 20 ricercatori – spiega il direttore scientifico Aldo Tomasi – operiamo su due filoni di ricerca applicata: la sensoristica e i test sulle colture cellulari. Il sostegno a sei startup. I servizi regolatori alle piccole aziende e alle multinazionali, in coerenza con i nuovi regolamenti comunitari » .
La frontiera tecnologica
Mauro Atti è amministratore unico di Aferetica, una azienda fondata nel 2014 che adesso ha 14 addetti e fattura 6,4 milioni. Atti è un ex manager della Bellco: « Nei mesi dopo il terremoto usammo come quartier generale la portineria, l’unico luogo non lesionato dalle scosse » . Aferetica prova a operare sul confine della frontiera tecnologica: « Siamo attivi nei sistemi di rimozione delle citochine dal sangue, nei casi di sepsi e di Covid- 19, e nella cosiddetta perfusione degli organi destinati ai trapianti, con la circolazione nell’organo di liquidi che li tengono attivi » , spiega Atti.
La cura e l’amore per la fabbrica e le policy corrette hanno elaborato, dopo il terremoto, un “Codice Mirandola”. Che, nel 2019, ha risposto con la forza dell’industria e del mercato alle esigenze della società. Mirandola non è il migliore dei mondi possibili. Ma è un mondo possibile.
A Mirandola lavorano 5.500 persone, per lo più impegnate 7 giorni su 7, 500 in più rispetto al 2019