Imprese: è il momento dei capitali pazienti
La caccia ai rendimenti ha riacceso l’interesse degli investitori sulle asset class più sensibili alla creazione di valore: per la finanza è un ritorno alle origini che solo per il private debt vale oltre 800 miliardi
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Con il costo del denaro ai minimi storici, la caccia ai rendimenti si è spinta ben oltre i confini del rischio: da Wall Street ai Bitcoin, l’orizzonte di investimento arriva ( a malapena) alla campanella di chiusura delle borse. Per chi investe sul valore d’impresa, o per le aziende che creano valore nel tempo, i mercati finanziari sono sicuri quanto la roulette.
Ma dietro il clamore dei record di borsa, e soprattutto in risposta al nuovo scenario competitivo creato dai tassi prossimi allo zero, nuovi modelli e strategie di investimento – a cominciare dal fenomeno dei fondi di “permanent capital” – stanno ridisegnando il rapporto tra finanza e impresa, offrendo non solo debito e capitali di rischio, ma partnership industriali con supporto tecnico e strategico per la crescita del valore nel lungo periodo. Anzi, lunghissimo, visto che i nuovi orizzonti di investimento sono da Titolo di Stato: fino a venti anni di holding period per le aziende in portafoglio, un abisso rispetto ai 3- 5 anni di permanenza dei tradizionali fondi di private equity. Per i tempi della borsa sembra un secolo, ma sul mercato dei capitali privati è il tempo necessario per chi investe sul dopo- crisi.
Sempre meno Borsa
Tra le incertezze create dal nuovo paradigma ultra- espansivo dei tassi di interesse, la vera novità è il ritorno alle origini dell’alta finanza privata: il supporto allo sviluppo dell’economia reale. La crescita del private market ( private equity e private debt) come soluzione alternativa alla quotazione in borsa sta crescendo infatti di popolarità nel mondo delle imprese, soprattutto tra le piccole e medie aziende, più vulnerabili alla speculazione per la crisi. Secondo le statistiche, è dal 2019 che scende il numero di quotazioni in Borsa ( circa 900 contro una media di 1.100- 1.600 nei tre anni precedenti), mentre resta costante anche nella crisi della pandemia il numero delle imprese che si “delistano” per tornare private: sono state 73 nel 2020 dopo le 76 operazioni “from public to private” del 2019, per una cifra record di oltre 155 miliardi di dollari ( i 74 delisting del 2018 valevano in totale 95 miliardi di dollari).
D’altra parte, con la liquidità record che inonda i mercati finanziari, le munizioni non mancano a nessuno: nel 2020, sfidando lo shock della pandemia, i gestori alternativi di capitali privati hanno chiuso oltre 200 fondi specializzati, raccogliendo un totale di 118 miliardi di dollari. È poco al di sotto dei 132 miliardi del 2019, ma quasi la metà ( 47%) dei grandi gestori prevede di impegnarsi maggiormente nel debito privato nei prossimi 12 mesi, con un ulteriore 40% che dichiara di voler mantenere gli attuali livelli di investimento nel “private capital” nei prossimi 12 mesi.
Nei radar dei capitali privati ci sono soprattutto gli scenari industriali e competitivi del dopo- crisi: non solo per la crescita sostenibile di lungo termine, ma anche per gli interventi nelle “special situation”, le situazioni critiche della finanza d’impresa, e per le ristrutturazioni del debito aziendale.
La marea del private debt
A giugno 2020, i fondi di private debt si attestavano ben oltre gli 800 miliardi, rendendo il debito privato la terza più grande asset class alternativa, dietro al private equity e al settore immobiliare.
In un contesto incerto per la ripresa dei tassi e dell’economia mondiale, fenomeni finanziari di questa portata non sono passeggeri. Oltre al ritorno dell’industria verso il privato, altre tre dinamiche fondamentali stanno guidando il salto generazionale dell’alta finanza privata: l’allungamento dell’orizzonte temporale per beneficiare dell’effetto “compounding” della crescita in presenza di bassi tassi di interesse; la necessità di competenze operative, industriali e finanziarie in grado di gestire investimenti con orizzonti di lungo termine; l’emergere di nuove holding industriali a capitale permanente specializzate su pochi settori di investimento o addirittura su un singolo settore, come alternativa vincente ai modelli tradizionali del private equity.
La sfida dei fondi privati di permanent capital di nuova generazione è proprio questa: creare valore permanente nell’impresa partecipata, integrandone le competenze tecniche e manageriali in chiave competitiva. I fondi di permanent capital possono essere costituiti come partnership, trust o holding industriale e possono essere quotati o a capitale privato, ma il loro denominatore comune è sempre la creazione di valore di lungo termine. Nel 2015 un’inchiesta del Financial Times rivelava che gestori di private equity e di hedge fund consideravano il capitale permanente come il “santo Graal” degli investimenti alternativi: « I veicoli di capitale permanente – scriveva il quotidiano finanziario – rappresentano la soluzione per la frustrazione di lunga data dei gestori patrimoniali alternativi: il rifiuto del mercato azionario di valutare le loro attività tanto quanto le tradizionali società di gestione di fondi » .
Sei anni dopo, il mondo del private capital sembra girare proprio in questa direzione: oggi non si tratta più di prendere il controllo della governance o della finanza aziendale, ma di affiancare o inserire nella compagine manageriale nuove figure tecniche altamente specializzate, dirigenti esterni con competenze verticali, aziendali o settoriali, dotati di visione di lungo periodo: i gestori li chiamano “operating partner” e “sector specialist”, proprio per valorizzarne il ruolo strategico per il successo dell’impresa.
Sulle orme di Buffett
Può sembrare un mondo di frontiera, ma le holding industriali a capitale permanente non sono una scoperta recente. La holding industriale e finanziaria Berkshire Hathaway di Warren Buffet, infatti, è la più grande e famosa società di permanent capital sul mercato dei capitali: è da oltre 20 anni una delle società con la maggiore capitalizzazione del mondo. La strategia di investimento di Buffet si basa sull’attenzione alle potenzialità di lungo periodo di un settore, per poter valutare quelle di una società in cui investire: il requisito più importante è la capacità di soddisfare le esigenze “permanenti e sostenibili” dei clienti. Proprio il contrario di quello che sta a cuore alla Borsa.
Nel nuovo decennio dei mercati, le orme di Buffett sono state seguite da holding di veicoli a capitale permanente come Ellington Financial e Fortress Investment Group, un colosso privato che gestisce cinque veicoli a capitale permanente. Altri specialisti del permanent capital includono il fondo di private equity General Atlantic, che secondo Bloomberg ha raccolto 13 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni, e a seguire i grandi “sauri” del private equity tradizionale: colossi come Blackstone e KKR, hanno lanciato nuovi fondi di lungo termine per poter competere con i maratoneti del permanent capital. In Italia, un esempio recente è quello di Azimut, che ha lanciato Azimut Alternative Capital Partners per trovare opportunità di lungo termine anche negli Stati Uniti.
Nel nuovo scenario competitivo, i gestori di hedge fund e le società di private equity stanno diventando più grandi, più diversificati e più istituzionali, cioè più simili al modello dei grandi gruppi dell’asset management. Fondi come Partners Group, KKR, EQT, Blackstone hanno quotato le management company in Borsa, mentre big come Apollo hanno trasformato le loro attività in società di gestione di investimenti diversificati: nuovi super- fondi privati in grado di offrire ai clienti un ventaglio di asset alternativi che include il private equity, gli hedge fund, le strategie di asset allocation a medio e lungo termine e soprattutto veicoli di investimento privato con capitale permanente.
Almeno sulla carta, insomma, la svolta del permanent capital sembra la chiave di una cassaforte di importanza strategica per i bisogni di capitale di rischio e il valore di lungo termine delle imprese non quotate.
Luci e ombre
In realtà, non tutti gli investitori sono convinti che il modello sia perfetto: le perplessità riguardano i reali benefici della progressiva omogeneizzazione dei modelli di investimento. Ma anche in questo caso la forza della concorrenza ha aperto la strada a un ulteriore salto di qualità nella competizione tra fondi privati e capitali permanenti: i private equity hanno cominciato ad aggiungere competenze industriali e settoriali attraverso il recruitment di management esterno, una svolta rispetto al tradizionale focus su financial engineering e sulla governance. La competizione sembra quindi spostarsi sulla superiorità in termini di competenze specifiche, come vera fonte di differenziazione. Il risultato è che un grande fondo generalista corre il rischio di risultare poco credibile in contesti altamente specializzati.
Al contempo, emergono anche nuovi modelli di riferimento nel rapporto di lungo termine tra industria e finanza. È il caso del gruppo Americano Danaher, diventato un casoscuola internazionale grazie al Danaher Business System ( DBS), un modello operativo in cui le inefficienze vengono eliminate attraverso il “Kaizen”, il miglioramento continuo della performance aziendale. In sostanza, si tratta dei principi del “lean management” rielaborati in chiave industriale e finanziaria in un nuovo modello originale che consente all’impresa non solo di assumere e attrarre le figure professionali più adeguate e creative, ma anche di migliorare i processi in modo continuativo e tale da attrarre più clienti e talenti. In questo senso, è soprattutto la presenza di un team di manager specializzati in fusioni e acquisizioni a rappresentare la vera marcia in più del “modello Danaher”: invece di affidarsi agli advisor esterni, sono gli specialisti interni a convincere le società target che una volta acquisite, saranno inserite in un contesto di crescita e miglioramento di lungo periodo.
Altro caso di rilevo che ha coniugato con successo l’approccio industriale e finanziario in un contesto di capitale permanente è quello di Ion, holding di investimenti specializzata nel Fintech che ha anticipato di oltre un decennio queste tendenze sviluppando un modello innovativo di fare impresa che punta a coniugare visione del prodotto, lean management, velocità esecutiva e visione strategica di lunghissimo periodo. Ion, che proprio in settimana ha chiuso l’acquisizione di Cedacri, a differenza dei fondi tradizionali di private equity investe nelle proprie partecipate operando trasformazioni profonde e tali da ripensare in chiave digitale l’intero modello di business e il portafoglio prodotti.
Sulla base delle tendenze in atto sul mercato dei capitali, sia dal lato del private equity che da quello delle holding industriali, sembra insomma di assistere a una progressiva convergenza dei modelli di investimento, dove il comune denominatore è rappresentato dallo spostamento degli orizzonti di investimento a lungo termine e da una superiore capacità di leadership in specifici settori o aree di competenza.
L’Italia non è estranea al trend: la conferma arriva dall’acquisizione di Cedacri da parte di Ion Capital
Le ambizioni di Cdp
Casi di questo tipo sono riscontrabili anche in Italia. Si pensi alla Cdp e alla filosofia di permanent capital dichiarata ed eseguita attraverso CDP Equity e con i fondi a supporto del sistema imprenditoriale italiano: basti pensare all’investimento in Nexi- SIA, operazione che ha consentito di creare in pochi anni un nuovo campione europeo nel settore strategico dei pagamenti. Non a caso, il fondo Hellman& Friedman ha scelto di mantenere la quota in Nexi- Sia in piena sintonia con le logiche di permanent capital.
Quale sarà il modello vincente del prossimo decennio si vedrà molto presto: la competizione sul mercato dei capitali non si ferma per il virus. Quello che è certo, è che di qui ai prossimi anni si assisterà a un confronto sempre più serrato e acceso tra modelli alternativi di investimento. Sarà una sfida tra competenze industriali distintive, su modelli di execution agili e su orizzonti di investimento proiettati nel lungo periodo. Proprio quello di cui ha bisogno l'economia industriale per ripartire più forte quando arriverà la tanto attesa ripresa dell’economia mondiale.