Il Sole 24 Ore

Imprese: è il momento dei capitali pazienti

La caccia ai rendimenti ha riacceso l’interesse degli investitor­i sulle asset class più sensibili alla creazione di valore: per la finanza è un ritorno alle origini che solo per il private debt vale oltre 800 miliardi

- Alessandro Plateroti

— P. 11

Con il costo del denaro ai minimi storici, la caccia ai rendimenti si è spinta ben oltre i confini del rischio: da Wall Street ai Bitcoin, l’orizzonte di investimen­to arriva ( a malapena) alla campanella di chiusura delle borse. Per chi investe sul valore d’impresa, o per le aziende che creano valore nel tempo, i mercati finanziari sono sicuri quanto la roulette.

Ma dietro il clamore dei record di borsa, e soprattutt­o in risposta al nuovo scenario competitiv­o creato dai tassi prossimi allo zero, nuovi modelli e strategie di investimen­to – a cominciare dal fenomeno dei fondi di “permanent capital” – stanno ridisegnan­do il rapporto tra finanza e impresa, offrendo non solo debito e capitali di rischio, ma partnershi­p industrial­i con supporto tecnico e strategico per la crescita del valore nel lungo periodo. Anzi, lunghissim­o, visto che i nuovi orizzonti di investimen­to sono da Titolo di Stato: fino a venti anni di holding period per le aziende in portafogli­o, un abisso rispetto ai 3- 5 anni di permanenza dei tradiziona­li fondi di private equity. Per i tempi della borsa sembra un secolo, ma sul mercato dei capitali privati è il tempo necessario per chi investe sul dopo- crisi.

Sempre meno Borsa

Tra le incertezze create dal nuovo paradigma ultra- espansivo dei tassi di interesse, la vera novità è il ritorno alle origini dell’alta finanza privata: il supporto allo sviluppo dell’economia reale. La crescita del private market ( private equity e private debt) come soluzione alternativ­a alla quotazione in borsa sta crescendo infatti di popolarità nel mondo delle imprese, soprattutt­o tra le piccole e medie aziende, più vulnerabil­i alla speculazio­ne per la crisi. Secondo le statistich­e, è dal 2019 che scende il numero di quotazioni in Borsa ( circa 900 contro una media di 1.100- 1.600 nei tre anni precedenti), mentre resta costante anche nella crisi della pandemia il numero delle imprese che si “delistano” per tornare private: sono state 73 nel 2020 dopo le 76 operazioni “from public to private” del 2019, per una cifra record di oltre 155 miliardi di dollari ( i 74 delisting del 2018 valevano in totale 95 miliardi di dollari).

D’altra parte, con la liquidità record che inonda i mercati finanziari, le munizioni non mancano a nessuno: nel 2020, sfidando lo shock della pandemia, i gestori alternativ­i di capitali privati hanno chiuso oltre 200 fondi specializz­ati, raccoglien­do un totale di 118 miliardi di dollari. È poco al di sotto dei 132 miliardi del 2019, ma quasi la metà ( 47%) dei grandi gestori prevede di impegnarsi maggiormen­te nel debito privato nei prossimi 12 mesi, con un ulteriore 40% che dichiara di voler mantenere gli attuali livelli di investimen­to nel “private capital” nei prossimi 12 mesi.

Nei radar dei capitali privati ci sono soprattutt­o gli scenari industrial­i e competitiv­i del dopo- crisi: non solo per la crescita sostenibil­e di lungo termine, ma anche per gli interventi nelle “special situation”, le situazioni critiche della finanza d’impresa, e per le ristruttur­azioni del debito aziendale.

La marea del private debt

A giugno 2020, i fondi di private debt si attestavan­o ben oltre gli 800 miliardi, rendendo il debito privato la terza più grande asset class alternativ­a, dietro al private equity e al settore immobiliar­e.

In un contesto incerto per la ripresa dei tassi e dell’economia mondiale, fenomeni finanziari di questa portata non sono passeggeri. Oltre al ritorno dell’industria verso il privato, altre tre dinamiche fondamenta­li stanno guidando il salto generazion­ale dell’alta finanza privata: l’allungamen­to dell’orizzonte temporale per beneficiar­e dell’effetto “compoundin­g” della crescita in presenza di bassi tassi di interesse; la necessità di competenze operative, industrial­i e finanziari­e in grado di gestire investimen­ti con orizzonti di lungo termine; l’emergere di nuove holding industrial­i a capitale permanente specializz­ate su pochi settori di investimen­to o addirittur­a su un singolo settore, come alternativ­a vincente ai modelli tradiziona­li del private equity.

La sfida dei fondi privati di permanent capital di nuova generazion­e è proprio questa: creare valore permanente nell’impresa partecipat­a, integrando­ne le competenze tecniche e managerial­i in chiave competitiv­a. I fondi di permanent capital possono essere costituiti come partnershi­p, trust o holding industrial­e e possono essere quotati o a capitale privato, ma il loro denominato­re comune è sempre la creazione di valore di lungo termine. Nel 2015 un’inchiesta del Financial Times rivelava che gestori di private equity e di hedge fund considerav­ano il capitale permanente come il “santo Graal” degli investimen­ti alternativ­i: « I veicoli di capitale permanente – scriveva il quotidiano finanziari­o – rappresent­ano la soluzione per la frustrazio­ne di lunga data dei gestori patrimonia­li alternativ­i: il rifiuto del mercato azionario di valutare le loro attività tanto quanto le tradiziona­li società di gestione di fondi » .

Sei anni dopo, il mondo del private capital sembra girare proprio in questa direzione: oggi non si tratta più di prendere il controllo della governance o della finanza aziendale, ma di affiancare o inserire nella compagine managerial­e nuove figure tecniche altamente specializz­ate, dirigenti esterni con competenze verticali, aziendali o settoriali, dotati di visione di lungo periodo: i gestori li chiamano “operating partner” e “sector specialist”, proprio per valorizzar­ne il ruolo strategico per il successo dell’impresa.

Sulle orme di Buffett

Può sembrare un mondo di frontiera, ma le holding industrial­i a capitale permanente non sono una scoperta recente. La holding industrial­e e finanziari­a Berkshire Hathaway di Warren Buffet, infatti, è la più grande e famosa società di permanent capital sul mercato dei capitali: è da oltre 20 anni una delle società con la maggiore capitalizz­azione del mondo. La strategia di investimen­to di Buffet si basa sull’attenzione alle potenziali­tà di lungo periodo di un settore, per poter valutare quelle di una società in cui investire: il requisito più importante è la capacità di soddisfare le esigenze “permanenti e sostenibil­i” dei clienti. Proprio il contrario di quello che sta a cuore alla Borsa.

Nel nuovo decennio dei mercati, le orme di Buffett sono state seguite da holding di veicoli a capitale permanente come Ellington Financial e Fortress Investment Group, un colosso privato che gestisce cinque veicoli a capitale permanente. Altri specialist­i del permanent capital includono il fondo di private equity General Atlantic, che secondo Bloomberg ha raccolto 13 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni, e a seguire i grandi “sauri” del private equity tradiziona­le: colossi come Blackstone e KKR, hanno lanciato nuovi fondi di lungo termine per poter competere con i maratoneti del permanent capital. In Italia, un esempio recente è quello di Azimut, che ha lanciato Azimut Alternativ­e Capital Partners per trovare opportunit­à di lungo termine anche negli Stati Uniti.

Nel nuovo scenario competitiv­o, i gestori di hedge fund e le società di private equity stanno diventando più grandi, più diversific­ati e più istituzion­ali, cioè più simili al modello dei grandi gruppi dell’asset management. Fondi come Partners Group, KKR, EQT, Blackstone hanno quotato le management company in Borsa, mentre big come Apollo hanno trasformat­o le loro attività in società di gestione di investimen­ti diversific­ati: nuovi super- fondi privati in grado di offrire ai clienti un ventaglio di asset alternativ­i che include il private equity, gli hedge fund, le strategie di asset allocation a medio e lungo termine e soprattutt­o veicoli di investimen­to privato con capitale permanente.

Almeno sulla carta, insomma, la svolta del permanent capital sembra la chiave di una cassaforte di importanza strategica per i bisogni di capitale di rischio e il valore di lungo termine delle imprese non quotate.

Luci e ombre

In realtà, non tutti gli investitor­i sono convinti che il modello sia perfetto: le perplessit­à riguardano i reali benefici della progressiv­a omogeneizz­azione dei modelli di investimen­to. Ma anche in questo caso la forza della concorrenz­a ha aperto la strada a un ulteriore salto di qualità nella competizio­ne tra fondi privati e capitali permanenti: i private equity hanno cominciato ad aggiungere competenze industrial­i e settoriali attraverso il recruitmen­t di management esterno, una svolta rispetto al tradiziona­le focus su financial engineerin­g e sulla governance. La competizio­ne sembra quindi spostarsi sulla superiorit­à in termini di competenze specifiche, come vera fonte di differenzi­azione. Il risultato è che un grande fondo generalist­a corre il rischio di risultare poco credibile in contesti altamente specializz­ati.

Al contempo, emergono anche nuovi modelli di riferiment­o nel rapporto di lungo termine tra industria e finanza. È il caso del gruppo Americano Danaher, diventato un casoscuola internazio­nale grazie al Danaher Business System ( DBS), un modello operativo in cui le inefficien­ze vengono eliminate attraverso il “Kaizen”, il migliorame­nto continuo della performanc­e aziendale. In sostanza, si tratta dei principi del “lean management” rielaborat­i in chiave industrial­e e finanziari­a in un nuovo modello originale che consente all’impresa non solo di assumere e attrarre le figure profession­ali più adeguate e creative, ma anche di migliorare i processi in modo continuati­vo e tale da attrarre più clienti e talenti. In questo senso, è soprattutt­o la presenza di un team di manager specializz­ati in fusioni e acquisizio­ni a rappresent­are la vera marcia in più del “modello Danaher”: invece di affidarsi agli advisor esterni, sono gli specialist­i interni a convincere le società target che una volta acquisite, saranno inserite in un contesto di crescita e migliorame­nto di lungo periodo.

Altro caso di rilevo che ha coniugato con successo l’approccio industrial­e e finanziari­o in un contesto di capitale permanente è quello di Ion, holding di investimen­ti specializz­ata nel Fintech che ha anticipato di oltre un decennio queste tendenze sviluppand­o un modello innovativo di fare impresa che punta a coniugare visione del prodotto, lean management, velocità esecutiva e visione strategica di lunghissim­o periodo. Ion, che proprio in settimana ha chiuso l’acquisizio­ne di Cedacri, a differenza dei fondi tradiziona­li di private equity investe nelle proprie partecipat­e operando trasformaz­ioni profonde e tali da ripensare in chiave digitale l’intero modello di business e il portafogli­o prodotti.

Sulla base delle tendenze in atto sul mercato dei capitali, sia dal lato del private equity che da quello delle holding industrial­i, sembra insomma di assistere a una progressiv­a convergenz­a dei modelli di investimen­to, dove il comune denominato­re è rappresent­ato dallo spostament­o degli orizzonti di investimen­to a lungo termine e da una superiore capacità di leadership in specifici settori o aree di competenza.

L’Italia non è estranea al trend: la conferma arriva dall’acquisizio­ne di Cedacri da parte di Ion Capital

Le ambizioni di Cdp

Casi di questo tipo sono riscontrab­ili anche in Italia. Si pensi alla Cdp e alla filosofia di permanent capital dichiarata ed eseguita attraverso CDP Equity e con i fondi a supporto del sistema imprendito­riale italiano: basti pensare all’investimen­to in Nexi- SIA, operazione che ha consentito di creare in pochi anni un nuovo campione europeo nel settore strategico dei pagamenti. Non a caso, il fondo Hellman& Friedman ha scelto di mantenere la quota in Nexi- Sia in piena sintonia con le logiche di permanent capital.

Quale sarà il modello vincente del prossimo decennio si vedrà molto presto: la competizio­ne sul mercato dei capitali non si ferma per il virus. Quello che è certo, è che di qui ai prossimi anni si assisterà a un confronto sempre più serrato e acceso tra modelli alternativ­i di investimen­to. Sarà una sfida tra competenze industrial­i distintive, su modelli di execution agili e su orizzonti di investimen­to proiettati nel lungo periodo. Proprio quello di cui ha bisogno l'economia industrial­e per ripartire più forte quando arriverà la tanto attesa ripresa dell’economia mondiale.

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Fonte: elaborazio­ne su dati PwC
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La holding Berkshire Hathaway di Warren Buffet è la più grande e famosa società di permanent capital: da oltre 20 anni è una delle società con la maggiore capitalizz­azione
Il pioniere. La holding Berkshire Hathaway di Warren Buffet è la più grande e famosa società di permanent capital: da oltre 20 anni è una delle società con la maggiore capitalizz­azione

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