Nel decreto Sostegni 5oo milioni ai lavoratori delle aziende in crisi
Per la nuova Ilva fabbisogno di 330 milioni in quattro anni per tutelare l’occupazione
Il Fondo di garanzia per le piccole imprese, piattaforma che in un anno ha registrato 1,77 milioni di domande da parte di aziende che altrimenti sarebbero state soffocate dall’indebitamento. E, salendo di un piano, per le imprese di maggiori dimensioni, gli strumenti per il salvataggio delle crisi aziendali. Con una novità dell’ultima ora: nel decreto Sostegno il governo è pronto a rifinanziare con 500 milioni il Fondo occupazione, che serve per sostenere lavoro e reddito, inclusi gli strumenti di sostegno necessari per completare, nelle crisi industriali più difficili, riconversione e reindustrializzazione dei siti produttivi. Parte di questi fondi serviranno alla nuova Ilva, che secondo i primissimi calcoli avrà necessità di 330 milioni di euro per salvaguardare il più possibile l’occupazione nei prossimi 4 anni, il tempo necessario per raggiungere i massimi produttivi della nuova società, partecipata anche da Invitalia.
È su questi fronti che si stanno muovendo i ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro, guidati, rispettivamente, da Giancarlo Giorgetti e Andrea Orlando. I prossimi mesi si annunciano duri, e il governo, sempre nel decreto Sostegno, ha già annunciato l’intenzione di voler prorogare blocco dei licenziamenti, in scadenza al 31 marzo, e cassa integrazione d’emergenza, entrambi fino al 30 giugno ( costo stimato 5- 6 miliardi, la cig Covid- 19 potrebbe poi proseguire fino a fine anno per le realtà più in affanno, terziario, turismo e commercio).
La strategia del Mise punterà ancora, inevitabilmente, a usare a piene mani lo strumento del Fondo centrale di garanzia, con tutti i potenziamenti e le estensioni del raggio d’azione scattati con la pandemia e rinnovati contestualmente alla proroga del Quadro europeo temporaneo sugli aiuti di Stato. Ma è soprattutto sulla gestione dei tavoli di crisi, complesse e non, che il nuovo governo potrebbe tentare un cambio di passo. Perché è stato fin qui il vero buco nero, in assenza di una comunicazione chiara e trasparente sui tavoli aperti, la loro risoluzione o il naufragio, il numero di lavoratori coinvolti.
Gli unici dati resi noti frettolosamente, un mese fa, in piena crisi di governo, riferiscono di 99 vertenze ancora aperte al Mise. Si tratterebbe di un numero in calo rispetto alle 120 di qualche mese prima e alle 150 di un anno fa. I lavoratori sono stati stimati dall’unità di gestione delle crisi dello Sviluppo economico in circa 110mila contro i 200mila di un precedente bilancio. Si tratta della punta dell’iceberg visto che nei dati Mise non ci sono le tante vertenze che riguardano aziende minori, probabilmente le imprese travolte dagli ultimissimi mesi della crisi Covid. Secondo fonti sindacali, i lavoratori coinvolti dalle crisi, con l’avvento del Covid, oscillano tra i 3 e i 400mila, e riguardano un pò tutti i settori core del Made in Italy, dalla meccanica all’abbigliamento, dall’informatica all’aereospazio.
Anche lo strumento che era stato coniato per salvare le imprese con l’ingresso azionario di Invitalia, cioè il cosiddetto Fondo per la salvaguardia dei livelli di impresa e la prosecuzione dell’attività d’impresa, è operativo solo sulla carta ma sta inciampando nei dubbi della Commissione europea e non ha ancora esplicato gli effetti annunciati su operazioni come Corneliani ed ex Embraco. In altri casi, si è arginata l’emergenza occupazionale con il metadone degli ammortizzatori sociali ma la reindustrializzazione rimane una promessa incompiuta: Whirlpool, Bekaert ( qui addirittura è stata re- introdotta la cigs per cessazione), ex Lucchini di Piombino sono solo gli esempi che fanno più rumore.