A Corneliani serve un ponte per superare il 2021
I 10 milioni decisi in estate, serviti per riavviare la sede, non sono mai arrivati
Se l’orologio fosse fermo al gennaio 2020, quando si tenne, a Firenze, l’ultimo Pitti Uomo in presenza, potremmo dire che il settore, stando ai dati della più importante fiera al mondo di abbigliamento maschile, è in buona salute. Anzi, fino a un anno fa correva più della parte donna, che assorbe, a livello globale, la maggior parte delle vendite di moda, ma cresce meno rapidamente. I dati però nascondevano, già in era pre Covid, situazioni diverse. È da oltre dieci anni che il formale perde terreno: sono sempre meno gli uomini che vanno in ufficio in giacca e cravatta. Stesso fenomeno per gli accessori: bandite o quasi le 24 ore, manager di tutti i tipi – non solo nella Silicon Valley – si presentano in pubblico con lo zainetto. Non è questione di prezzo e non è un fenomeno di moda, per definizione passeggero. Si tratta della scoperta della comodità e praticità, partita dagli Stati Uniti, dove fu inventato il casual friday e dove nel 2019 Goldman Sachs ha abolito l’obbligo di cravatta nei suoi uffici.
I marchi del formale, come Corneliani, hanno subito un calo di vendite dei prodotti più tradizionali e solo chi è stato capace di creare osmosi con l’universo del casual o addirittura dello sportswear ha superato la crisi. Corneliani aveva iniziato questo necessario percorso, come hanno fatto, bruciando le tappe, maison come Kiton e Zegna. Non è, ribadiamo, questione di abbassare i prezzi: Lvmh, il più grande gruppo del lusso al mondo, ha appena acquistato i sandali Birkenstock, che nelle loro versioni “firmate” arrivano a costare 300 euro.
L’azienda di Mantova, per dimensioni ( 1.200 dipendenti nel mondo), notorietà del marchio e storia ha ancora la possibilità di rilanciarsi. Non a caso nel luglio 2020 il Mise ha deciso di supportarla con 10 milioni di finanziamento, anche perché, riportando al posto giusto le lancette, il 2020 è stato l’annus horribilis del tessile- moda, che rispetto ai circa 100 miliardi di fatturato del 2019 ne ha persi 25. La tempesta della pandemia ha investito tutti, ma la stanno attraversando, vedendone la fine, pur con immensa fatica e notevoli perdite, solo le aziende o i marchi che avevano solidità economica, finanziaria e di progetto.
Dall’ingresso come socio di maggioranza del fondo del Bahrein Investcorp, nel 2016, Corneliani non ha spinto a sufficienza sui cambiamenti chiesti dal mercato. Da una parte perché il 20% rimasto alla famiglia ha suscitato liti e addirittura cause tra fratelli e cugini, dall’altra perché la nuova proprietà, come spesso capita a chi acquista marchi del lusso, non ha compreso quanto sia difficile gestire un brand di alta gamma, specie ai tempi della globalizzazione. I 10 milioni decisi dal Mise, in un momento in cui l’azienda rischiava di passare dal concordato alla procedura di liquidazione, sono serviti per riavviare la produzione e « portare a termine le collezioni autunno- inverno 20- 21 e iniziare quelle per la primavera- estate 2021 » , ricorda Michele Orezzi, segretario generale della Filctem Cgil di Mantova.
Ma il finanziamento non è mai arrivato e il ministro Giancarlo Giorgetti, in un incontro a Roma di pochi giorni fa, ha garantito l’impegno a sbloccare la situazione. « I lavoratori hanno dimostrato che con iniezioni di capitale l’azienda può preservare know how e mercato e pensare a nuovi sviluppi – aggiunge Orezzi –. Oltre all’intervento del Mise però, sfumato l’interesse di Marco Boglione di Basicnet, Investcorp deve fare la sua parte, cercando nuovi investitori e sforzandosi di guardare oltre il Covid » .
Il marchio è forte e si è adattato ai nuovi gusti del mercato, ma l’annus horribilis della moda ha bloccato il rilancio