Gorelli primo italiano nel Masters of Wine
Non solo la rottura di un tabù ma il segno dell'evoluzione della cultura del vino in Italia. È questo il senso dell'ingresso qualche giorno fa di Gabriele Gorelli, primo italiano in assoluto, nell'esclusivo club ( 418 membri al mondo) dei Masters of Wine, i superesperti internazionali del vino. Per fregiarsi sui biglietti da visita delle iniziali “MW” occorre superare un lungo e articolato percorso di studi dimostrando competenze che spaziano dalla viticoltura all'enologia, ai mercati internazionali. Il tutto condito da un blind test finale, una degustazione alla cieca, di 36 vini di ogni parte del mondo.
L'Institute of Masters of Wine nasce nel 1953 a Londra per le nazioni prive di una viticoltura: Regno Unito e paesi Commonwealth. Si tratta quindi di una certificazione per coloro che andavano in giro per il mondo a comprare vino per i consumatori britannici, da Madeira a Bordeaux fino all'Australia e alla Nuova Zelanda. E negli anni quando il buyer di una catena di hotel e ristoranti o della grande distribuzione si recava in un'area vitivinicola per comprare vino spesso si rivolgeva al Master of Wine competente. E a parlare dell'Italia finora c'erano solo stranieri.
« L'Italia era assente – spiega Gorelli ( 36 anni da Montalcino, Siena) – soprattutto a causa di un certo nostro provincialismo vinicolo. Se vado in un ristorante a Montalcino il 65% della carta dei vini è montalcinese, il resto della Toscana e solo in fondo, quasi nascosto, trovo uno Champagne. Nei nostri ristoranti ci sono pochissimi vini stranieri, e se ci sono, sono solo di altissima qualità. Non arrivano altri stili, non c'è il ‘ sottobosco', il vino vero, quello che si beve davvero e che – per inciso - noi vorremmo vendere agli altri » .
Sotto questo profilo la nomina di Gorelli può rappresentare un cambio di passo. « L’Italia – aggiunge il neo Master of Wine – è ancora troppo complicata per gli stranieri. La Francia ha sette zone viticole tutte stilisticamente molto riconoscibili. In Italia in un raggio di 30 chilometri ci sono 30 diverse denominazioni. A Bordeaux tengo due corsi di 30 studenti di ogni emisfero per il Wset ( Wine e spirits education trust), una prima certificazione delle conoscenze vinicole con 10mila diplomati al mondo. Abbiamo condotto due swot analysis sul vino italiano dalle quali è emerso che anche persone con una conoscenza del vino fanno fatica a orientarsi sull'Italia » .
E il provincialismo non è solo nella complessità. « Noi insistiamo – aggiunge Gorelli – nel proporre l'abbinamento vino- cibo che nei nuovi mercati non esiste. Neanche i cinesi che hanno vissuto in Italia abbinano il vino al cibo. Loro, come i giovani vietnamiti, amano l'Italia e lo stile di vita italiano non il vino italiano. Capisco che possa essere dura da mandar giù ma la verità è che le nostre bottiglie sono per loro una leva di status. Diamogli quello. Dobbiamo semplificare i nostri vini e la nostra comunicazione. Puntiamo di più su prodotti nuovi dai nomi nuovi o sugli Orange wine, vini bianchi macerati che all'estero stanno prendendo piede. Oppure su quella che noi chiamiamo la Pinotsophie, lo stile dei Pinot: vini con poco alcol ma grande complessità e sapore. In Italia i vini della Valpolicella sono su questa strada e quelli dell'Etna potrebbero imboccarla presto » .