Pd, il derby tra donne congela il vero scontro
Ipotesi rinvio della conta Le due anime dem allo snodo cruciale
Gli zingarettiani rimasti senza il leader, che da parte sua ha fatto un passo di lato e non indietro, vogliono imporre un segretario di continuità con la linea pro- M5S del segretario dimissionario e avvertono con Stefano Vaccari che non serve « un finto unanimismo » : in questo schema si fa tra gli altri il nome del giovane ex ministro del Sud Giuseppe Provenzano, anche se i più lo vedono più adatto a correre alle future primarie piuttosto che a fare il segretario di garanzia nella fase pre- congressuale. Gli uomini di Dario Franceschini, che con il suo circa 25% in assemblea nazionale detiene la golden share della maggioranza zingarettina uscente, così come i big della minoranza di Base riformista, che possono contare in assemblea sul 20% circa di voti, spingono invece per la soluzione opposta: un segretario o una segretaria su cui possa esserci la convergenza di tutte le anime del Pd e che porti il partito a congresso dopo le elezioni comunali di ottobre. In questo schema resta in pole l’ex ministra della Difesa dei governi Renzi e Gentiloni Roberta Pinotti, che per altro sembra essere non sgradita allo stesso Nicola Zingaretti. Anche se - suggerisce qualcuno tra zingarettiani e franceschiniani anche se l’interessato ha già avuto modo di tirarsi indietro - una figura di sicura garanzia potrebbe essere quella dell’ex premier Enrico Letta. Mentre gli orlandiani, contrari all’ipotesi Pinotti, mettono in campo una figura di sicura autorevolezza ma per gli avversari troppo legata alla storia Pci- Ds come Anna Finocchiaro. Pd ancora in mezzo al guado, dunque. Tanto che oggi la presidente del partito Valentina Cuppi, dopo aver riunito il comitato esecutivo nominato per preparare l’assemblea del 13 e 14 marzo, potrebbe prendere atto dell’impasse e rimandare l’appuntamento.
Un derby tra donne, quello di queste ore nei conciliaboli tra i democratici sotto choc, che al momento serve più che altro a nascondere le profonde divisioni che attraversano il partito fondato da Walter Veltroni. E non da ora. In fondo siamo alla figurazione di quello che a suo tempo Massimo D’Alema chiamava « l’amalgama mal riuscito » . Allora D’Alema si riferiva alle due tradizioni unitesi nel nuovo partito, ossia quella Dc- Popolari e quella Pci- Diessini. Oggi la dicotomia potrebbe invece essere riassunta così: da una parte coloro che ancora credono al Pd come unione delle tradizioni riformiste ( socialiste, liberali, democratiche e cattoliche); dall’altra coloro che ritengono urgente la trasformazione del Pd in un partito più schiettamente di sinistra demandando la rappresentazione delle tradizioni liberal- democratiche ad altri o comunque mantenendole all’interno del Pd in modo testimoniale.
Non è questione di poco conto. In fondo l’ « amalgama mal riuscito » è sopravvissuto per 14 anni perché si è retto a lungo su due presupposti che non ci sono più, l’antiberlusconismo e un sistema elettorale fortemente maggioritario come erano sia il Mattarellum sia il Porcellum. Anche la questione del rapporto con il M5S rischia in questo quadro di essere una strumentale foglia di fico: nessuno nel Pd, neanche la minoranza degli ex renziani di Base riformista, ritiene di poter fare a meno dell’alleanza con i pentastellati ormai “europeizzati” per battere il centrodestra. A partire dalle prossime comunali e in prospettiva alle politiche. Il dilemma è più profondo: esistono ancora le ragioni che hanno portato alla creazione del Pd nel 2007? Chissà che non siano proprio le donne democratiche, da qui al congresso, a dare una risposta indicando una strada.