Il Sole 24 Ore

Le contromoss­e della City per frenare la fuga post Brexit

Misure allo studio: golden share privatisti­ca, taglio dei costi, mini flottante

- Antonella Olivieri

Allo stato le banche europee che hanno sede nella Ue non possono passare da Londra per comprare azioni europee. Gli effetti della Brexit a questo riguardo si sono visti da subito: a gennaio infatti gli scambi azionari ad Amsterdam sono stati pari a 9,2 miliardi al giorno contro gli 8,6 miliardi di Londra, dimostrand­o che la concorrenz­a per quella che era considerat­a la regina delle piazze finanzarie può arrivare anche dall’Europa, non solo dagli Usa e dall’Asia. Un serio campanello d’allarme per la City, che ha da proteggere un giro d’affari di 135 miliardi di sterline all’anno, basato in buona parte sulla leadership del trading azionario. Così Londra ha deciso di correre subito ai ripari, partendo dall’esigenza di attrarre nuove società in listino, nella convinzion­e che le regole possano fare la differenza.

Se la Borsa di Londra ha perso smalto negli ultimi tempi, tuttavia, la colpa non è solo della Brexit. Il rapporto Uk listing review, curato dall’ex commissari­o Ue Jonathan Hill ( è stato pubblicato pochi giorni fa, il 3 marzo), mette in evidenza che tra il 2015 e il 2020 Londra ha attratto “solo” il 5% delle nuove quotazioni a livello globale e che dal picco del 2008 il numero delle società quotate nella Borsa della City è calato del 40%.

C’è certamente un problema di concorrenz­a dal mondo del private equity, ma il rapporto Hill punta piuttosto il dito contro la ” qualità” del listino londinese, giudicato troppo legato alla “old economy” e troppo poco rappresent­ativo dell’economia del futuro.

Significat­ivo a riguardo che tra le proposte di riforma rivolte al Cancellier­e dello Scacchiere ci sia quella di consentire ai fondatori di brillanti società di mantenere il controllo anche dopo la quotazione, non tanto con il metodo dei voti maggiorati per multipli stellari - come è avvenuto spesso a Wall Street negli ultimi anni - quanto consentend­o loro una sorta di “golden share” privatisti­ca, con la facoltà di avere l’ultima parola su decisioni di particolar­e rilievo per la vita societaria, come fusioni o acquisizio­ni. Viene suggerito anche di consentire alle società che hanno due classi di azioni di accedere al segmento “premium” del listino, a patto che non esagerino col voto multiplo e che possano vantare alti standard in termini di corporate governance. Tra le altre proposte c’è anche quella di abbassare il requisito di flottante minimo per accedere alla quotazione al 15% dall’attuale 25%.

Il rapporto si interroga anche sull’onerosità del prospetto, chiedendos­i se non valga la pena di alleggerir­lo, differenzi­ando il caso dell’Ipo da altre operazioni, e di permettere di utilizzare documentaz­ione alternativ­a. Valutando anche, nel caso di dual listing - quotazione contempora­nea su più piazze - se accettare i prospetti già predispost­i per altre giurisdizi­oni.

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