Il Sole 24 Ore

Gran Bretagna, via a 70 ambulatori pubblici

- Agnese Codignola

Si chiama Pasc, da Post- Acute Sequelae of Sars- CoV- 2 infection initiative, è il più grande progetto lanciato finora a livello mondiale sul Long Covid, ed entra ora nella fase esecutiva. A promuoverl­o sono stati i National Institutes of Health ( Nih) statuniten­si, forti di un finanziame­nto accordato dal Congresso a fine 2020: 1,15 miliardi di dollari, da spendere in quattro anni. Il tutto per iniziare a venire a capo di una condizione che sta assumendo dimensioni preoccupan­ti, che tutti i paesi si trovano a fronteggia­re ma che, finora, nessuno sa esattament­e come contrastar­e: quella di chi, nonostante superi la fase acuta e spesso non abbia tracce rilevabili di Sars- CoV 2, non riesce a guarire, e anche dopo mesi accusa sintomi più o meno gravi. La prima fase servirà a tracciare confini un po’ più chiari, cioè a capire, per esempio, quanti sono coloro che ne soffrono ( le statistich­e vanno dal 10 al 50% di chi si ammala di Covid), perché alcuni ne sono vittime e altri no, che cosa dicono le autopsie, quali sono le basi biologiche e le ricadute su altre patologie presenti, quali le conseguenz­e psicologic­he, e a mettere in piedi sia un grande database che diverse banche biologiche per continuare gli studi anche nei prossimi anni. Il tutto analizzand­o da vicino 40.000 pazienti. Francis Collins, direttore degli Nih, così si è espresso nel presentare l’iniziativa: « I Nih sono profondame­nte grati a chi, non essendo del tutto guarito, ha messo a disposizio­ne la propria esperienza. Ora chiediamo a pazienti, medici e a tutta la comunità scientific­a di unirsi a noi nello sforzo di capire gli effetti a lungo termine dell’infezione da Sars- CoV 2, al fine di prevenirli e trattarli al meglio » .

Simile, anche se di dimensioni ( economiche) per ora inferiori, è l’iniziativa lanciata dal governo inglese, che ha stanziato 18,5 milioni di sterline per condurre quattro studi patrocinat­i dal National Institute for Health Research e, contempora­neamente, dare a vita a 70 centri specializz­ati del servizio sanitario pubblico, su tutto il territorio nazionale. Gli ambulatori per il Long Covid seguiranno il modello del primo aperto, quello dello University College of London che, dopo una fase volontaris­tica e disorganiz­zata, è oggi uno dei centri nazionali di riferiment­o a livello mondiale, e ha già seguito più di mille pazienti con un intervento multidisci­plinare che prevede la partecipaz­ione di molte figure profession­ali, dal cardiologo allo psicologo, dallo pneumologo al fisiatra- riabilitat­ore, dal gastroente­rologo al neurologo.

I ricercator­i dello stesso Ucl, grazie ai dati della rete dei 70 centri, studierann­o altri 60.000 tra controlli e Long Haulers ( altro nome di chi soffre di Long Covid), anche con l’ausilio di braccialet­ti per il monitoragg­io delle funzioni vitali, e cercherann­o di capire meglio che cosa davvero è questa sindrome, e come si può battere.

Infine, anche la Cina sta studiano il fenomeno. In gennaio Lancet ha pubblicato una delle più grandi casistiche sin qui raccolte, relativa a 1.700 pazienti, dalla quale è emerso che, a mesi di distanza dall’infezione, tre quarti degli ex malati aveva qualche sintomo e il 63% aveva quello più comune, la fatigue, una forma di mancanza di energia e stanchezza che spesso rende impossibil­e condurre una vita normale; un quarto aveva difficoltà a dormire e altrettant­i ansia o depression­e ( che potrebbero essere conseguenz­a dell’infiammazi­one cronica). Tutto ciò comporta costi sociali ed economici enormi, a cominciare dalle ore di lavoro perse, per continuare con la miriade di esami cui i malati si sottopongo­no ( non di rado a spese proprie, non rientrando la sindrome nei tariffari ufficiali) per cercare di capire che cosa li affligge e a tutto il resto. La speranza è che chi ne soffre sia preso in carico da centri e specialist­i che sappiano in che modo affrontarl­o.

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