AUMENTANO LE OFFERTE, MA PER I RISPARMIATORI RISCHIO DISORIENTAMENTO
Se c’è una dote che bisogna riconoscere ai gestori è quella di saper cogliere l’attimo, più o meno fuggente, a seconda delle fasi congiunturali del mercato.
Complice questa reattività straordinaria, nelle diverse tappe che hanno caratterizzato l’ormai lunga storia dei fondi comuni in Italia, è sempre stata l’offerta a guidare la domanda dei prodotti, non viceversa. E in effetti ci sarà un motivo se le categorie nelle quali sono stati raggruppati i prodotti del risparmio gestito inizialmente erano soltanto tre ( azionari, obbligazionari e bilanciati) e oggi sono 42. Una crescita esponenziale nel ventaglio di offerta che da un lato ha il grande merito di aver ampliato la gamma degli strumenti sul mercato, permettendo così all’investitore di poter diversificare di più, dall’altra il limite di averne disorientato una parte. Non tutti sono infatti in grado di capire se e quanto il livello di specializzazione di un fondo sia adatto o meno al proprio profilo di rischio. Alla base di questa reattività c’è la tendenza ad assecondare i trend del momento che hanno avuto sempre forte presa sugli uffici prodotto delle Sgr.
Per capire il fenomeno, basta tornare indietro con la memoria all’inizio degli anni 2000, periodo in cui l’euforia collettiva per internet spinse le società di gestione a lanciare sul mercato una sfilza di prodotti ad hoc sul comparto. Una scelta vincente per le case d’investimento perché questa tipologia di fondi veniva acquistata da tantissimi piccoli investitori, passati con grande disinvoltura da prodotti obbligazionari, ( offerti da sempre, insieme ai monetari, come alternativa ai titoli di Stato) al mercato azionario. Una scelta che nella maggior parte dei casi è stata fatta dagli investitori più sull’onda dell’entusiasmo che della consapevolezza: bastava che i prodotti investissero nei titoli del momento, quelli che salivano in Borsa a rotta di collo, dimenticandosi che il fondo comune non è uno strumento speculativo, ma creato per pianificare gli investimenti nel medio/ lungo termine.
Oggi quei prodotti praticamente non esistono più. La bolla è scoppiata, la corsa si è bruscamente interrotta, è stata fatta una marcia indietro e si è tornati ai fondamentali, a selezionare aziende con una storia reputazionale solida, margini di crescita realistici e bilanci che lo dimostrassero. Le società hanno quindi provveduto a un restyling di questi prodotti e qualche volta anche a chiuderli. Poi ci ha pensato il processo di consolidamento tra le società del settore a spingere i gruppi a razionalizzare l’offerta.
C’è stata poi la moda dei fondi a formula e a seguire dei fondi cedola. Anche in questo caso i gestori hanno intercettato l’emergente esigenza di percepire una rendita dall’investimento e quindi di proporre una soluzione che offrisse un flusso cedolare periodico, che avesse un rischio contenuto e mettesse più al riparo il capitale; salvo poi scoprire che in qualche caso, proprio per pagare quella cedola, si attingeva dal capitale del fondo ( e quindi dell’investitore) e non dai guadagni realizzati dal gestore: più che uno stacco cedola si trattava di un vero e proprio rimborso del capitale.
In seguito sono arrivati i Pir, i piani individuali di risparmio, partiti in pompa magna per aiutare l’economia reale in un momento di crisi con tanto di agevolazione fiscale e, dopo una serie di alterne vicende, ora sono relegati nel dimenticatoio ( con buona pace dell’economia reale).
Adesso è il momento dei fondi specializzati nella cyber security e nell’intelligenza artificiale e in tutti i suoi campi di applicazione, ma anche dei fondi sostenibili; non c’è casa di investimento che non affermi di adottare criteri Esg. E questo è molto positivo, ma la speranza è che la ricerca di aziende che facciano dell’etica il loro carattere distintivo non sia solo un’etichetta per vendere meglio il prodotto, facendo leva sulla sensibilità di ognuno. La sostenibilità non può e non deve essere solo una moda del momento.