Il Sole 24 Ore

Resuscitar­e Alitalia, una operazione non economica

- Gianfilipp­o Cuneo

Èrecenteme­nte scomparso Domenico Cempella, unico amministra­tore delegato di Alitalia ad aver chiuso un bilancio positivo di Alitalia negli ultimi 25 anni. In questa settimana il Governo si appresta a chiudere una negoziazio­ne con la Commission­e dell’Ue che verosimilm­ente permetterà di bruciare altri 3 miliardi di euro nell'irrealisti­co tentativo di resuscitar­e Alitalia. In 25 anni non si è proprio imparato niente. Nel 1996 Cempella riuscì ad avere pace sindacale e ridurre costi, ma non riuscì a convincere l’Iri a regalare per davvero la compagna aerea ai dipendenti; io avevo lavorato al suo fianco come consulente, anche se ingaggiato dall’Iri, per trovare una soluzione definitiva per l’azienda, e rimasi stupito come proprio l’Iri si opponesse a liberarsi dell’azienda, magari regalandol­a ai dipendenti: l’equazione “tante perdite= tanti dipendenti= tanto potere da amministra­re” era impossibil­e da smontare. Lo è ancora oggi, e come ieri si gioca con i soldi degli altri, e cioè dei contribuen­ti che hanno già buttato via oltre 9 miliardi di euro in varie ricapitali­zzazioni, prestiti inesigibil­i e sussidi vari.

Sarà davvero interessan­te vedere con quali argomentaz­ioni il Governo potrà dire che investire altri 3 miliardi nell’ennesimo tentativo di resuscitar­e la compagna aerea è “debito pubblico buono”. Non è che diminuendo il numero degli aerei della flotta la compagnia diventa concorrenz­iale; perderà solo un po’ di meno. È forse utile ricordare le cinque ragioni fondamenta­li perché una compagnia di bandiera italiana non possa “volare”, economicam­ente parlando.

Ai tempi di Cempella il modello di business si basava sul concetto di hub: uno scalo centrale dove confluisco­no i voli regionali e dal quale si parte per le medie e lunghe distanze con un numero sufficient­e di passeggeri a giustifica­re la gestione delle tratte con aerei più grandi. Da allora, inesorabil­mente, tale modello si è incrinato, perché la liberalizz­azione dei trasporti ha fatto emergere gli operatori low cost che vanno da punto a punto in Europa, sfruttano meglio gli aeromobili e inoltre hanno costi operativi che una compagnia di stato e dominata dai sindacati non riesce ad eguagliare.

Il secondo problema struttural­e è che la mentalità di Alitalia è da azienda pubblica, indipenden­temente dal regime giuridico e persino dall’azionariat­o, che un paio di volte è stato formalment­e privato. I dipendenti sanno per esperienza che i loro posti di lavoro sono garantiti, direttamen­te o attraverso faraoniche casse integrazio­ni; è impossibil­e negoziare con i sindacati pacchetti di remunerazi­oni e flessibili­tà operative confrontab­ili con quelle di compagnie i cui dipendenti possono anche perdere il posto di lavoro se i bilanci non quadrano. La grande maggioranz­a delle tratte di Alitalia si confronta con i low cost, non con gli operatori come Air France o Lufthansa, che nel corto e medio raggio sono imbattibil­i.

Il terzo svantaggio struttural­e di una compagnia aerea italiana è che la maggior parte delle rotte interconti­nentali ( quelle con margini più elevati) va verso il Nordameric­a; per un bolognese che voglia andare a Chicago non vale la pena di prendere un volo verso sud per Roma e poi andare verso nord a New York e lì prendere un volo per la destinazio­ne finale: da Bologna si va a Francofort­e e da lì direttamen­te a Chicago. Un quarto problema struttural­e è la penuria di passeggeri business

class in Italia, mentre tale categoria contribuis­ce in modo importante alla redditivit­à delle aerolinee britannich­e, francesi e tedesche.

Infine, i passeggeri tendono a privilegia­re le linee aeree del proprio Paese: l’Italia era, e speriamo torni ad essere, una meta turistica privilegia­ta, ma l’Alitalia ha sempre avuto difficoltà ad intercetta­re i flussi “incoming” mentre quelli degli italiani “outgoing” sono insufficie­nti a garantire redditivit­à.

Con questi svantaggi struttural­i nessun operatore economico serio si cimentereb­be nel tentativo di resuscitar­e l’Alitalia, ed infatti solo lo Stato si presenta all’appello dell’investimen­to, magari presentand­o studi di prestigios­i consulenti che ne dimostrano la razionalit­à. Quando l’ingegner Cimoli era stato ad di Alitalia vennero spesi oltre 40 milioni di euro di consulenze per dimostrare che l’Alitalia poteva “volare”; sappiamo come è finita. Comunque, dopo che i precedenti governi hanno preso in giro la commission­e EU garantendo che i soldi messi nella società non erano aiuti di Stato, che i prestiti ponte sarebbero stati restituiti ecc. si arriverà inevitabil­mente ad un qualche compromess­o. L’impopolari­tà politica conseguent­e ad una ammissione di impotenza ( cioè ad una operazione verità) non sembra valere l’ulteriore “debito cattivo” che comunque sarà pagato dalle generazion­i future; ma almeno questa volta ci si risparmi la finzione di fare un’operazione razionale!

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