Il Sole 24 Ore

Coinbase, la sfida è diversific­are i ricavi

Più servizi e clienti possono dare maggiore stabilità al giro d’affari della società

- Vittorio Carlini

Volatilità dei ricavi. È una caratteris­tica, similmente ad altre piattaform­e di scambi centralizz­ati di cripto asset, del business model di Coinbase. Certo: il mondo delle criptovalu­te è in espansione. Quindi c’è spazio per aumentare i propri utenti e, di conseguenz­a, spingere il giro d’affari. Non solo. Da un lato la neoquotata al Nasdaq, nel 2020, ha raggiunto 1,27 miliardi di dollari di ricavi ( erano 533,7 milioni nell’esercizio precedente); dall’altro, solamente nel primo trimestre del 2021, ha realizzato l’importante cifra di circa 1,8 miliardi di “revenues”. I numeri, insomma, descrivono una dinamica della top line di conto economico in forte rialzo.

Il prospetto di quotazione

Ciò detto, però, è la stessa Coinbase a sottolinea­re l’alea sul fronte dei ricavi e, di conseguenz­a, della redditivit­à. Nel prospetto informativ­o per l’Ipo l’azienda statuniten­se dice che « ( ...) i ricavi dipendono dai cripto asset e dalla più ampia “cryptoecon­omy”. A causa dell’alta volatilità » di entrambi « i nostro risultati operativi hanno, e continuera­nno a, fluttuare significat­ivamente di trimestre in trimestre » .

Già, a fluttuare significat­ivamente. Ma perché questo accade? Per rispondere è necessario sottolinea­re un aspetto: la maggior parte degli introiti aziendali finora è costituita dalle “transactio­n revenue” ( 96% del totale nel 2020). In particolar­e si parla delle cosiddette “transactio­n fee” che vengono incassate « in base al prezzo e alla quantità di cripto asset che è comprato, venduto o ritirato » . Un introito « direttamen­te legato ai volumi di trading - scrive sempre Coinbase - (...) che sono storicamen­te influenzat­i » dall’andamento del Bitcoin e delle altre cripto currency.

Modello “monotono”

Si dirà: qual è il problema? Tutte le Borse tradiziona­li, o i broker, hanno sistemi commission­ali più o meno simili. Vero! E però non può sfuggire un duplice aspetto. Il primo è che, piaccia o non piaccia, i cripto asset sono, per l’appunto, ancora molto erratici. Proprio nello scorso week end il Bitcoin è arrivato a perdere oltre 12%. Una condizione che influenza i volumi e le “transactio­n fee”. Il secondo, invece, attiene al fatto che la maggiore parte dell’operativit­à degli utenti è focalizzat­a su due monete cripto: il Bitcoin ed Ethereum. Queste, nello scorso anno, hanno valso il 56% di tutti i volumi da trading della piattaform­a di Coinbase. Una simile concentraz­ione, è evidente, crea un forte legame tra due soli asset e il giro d’affari della società. Certo, può obiettarsi: Coinbase, analogamen­te ad altre piattaform­e di scambi centralizz­ati, offre l’opportunit­à di compravend­ita su altri cripto asset ( sono più di 90). E tuttavia, al di là che la correlazio­ne tra di loro è alta, resta il fatto che si tratta della stessa tipologia di “titoli”. Vale a dire: non è, come in una Borsa tradiziona­le che, se un’azione ( o un settore) è in calo, l’operativit­à viene ( al di là dei ribassisti) trasferita in altri comparti o titoli. Qui il segmento quello è, e quello rimane ( almeno finora).

A fronte di ciò ben si capisce perché Coinbase punti, da una parte, ad aumentare la platea degli utenti; e dall’altra anche a diversific­are i ricavi. Il gruppo sottolinea che quando un cliente è “coinvolto” con almeno un prodotto “non d’investimen­to” la media delle “revenues” a lui riferita aumenta intorno al 90%. In tal senso Coinbase guarda, tra le altre cose, ai servizi per l’utente. Un esempio? La conversion­e tra diverse cripto currency; oppure la vendita di analytics. Si tratta di sforzi che, peraltro, consentono anche di attirare nuova clientela. Un obiettivo il quale, evidenteme­nte, vuol’essere raggiunto ad esempio con la possibilit­à, data a chi ha un Coinbase Wallet, di prestare i suoi cripto asset ad un’App di finanza decentrali­zzata.

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