Tassi e debiti, il paradosso dell’exit strategy
I mercati hanno messo all’ordine del giorno il tema dell’uscita dall’emergenza
Come si esce dalla politica monetaria pandemica? Non è prematuro porsi questa domanda, anche se l’incertezza resta alta. Perché non sarà per nulla facile smantellare i piani d’emergenza, e perché il tema è già stato posto prepotentemente, sia sul piano finanziario sia, almeno alla Bce, sul piano strettamente politico.
I mercati si sono mossi con il consueto anticipo. La ripresa, che sarà tumultuosa anche se diseguale, potrebbe arrivare presto, mentre il sommarsi di politiche monetarie accomodanti e politiche fiscali espansive potrebbe portare in alto l’inflazione. Negli Stati Uniti i rendimenti dei decennali sono saliti di 70 punti base, ma anche in Eurolandia la curva dei rendimenti si è riavvicinata ai livelli prepandemia, mentre le aspettative di inflazione ( misurate dagli interest
rate swaps 5y5y), sono tornate sopra quota 1,5, abbandonata a inizio 2019.
Troppo presto, forse; e non a caso la Bce ha ricalibrato la sua strategia. A marzo ha intensificato gli acquisti pandemici di titoli e ha posto le condizioni di finanziamento - tassi di interesse, e non solo, lungo tutta la catena di trasmissione della politica monetaria - al centro della sua attenzione: devono restare accomodanti.
Lo scollamento tra politica monetaria e mercati può essere pericoloso: « Se gli investitori chiedono tassi più alti di quelli che le banche centrali intendono offrire – spiega Stephen King della Hsbc – aumenta il rischio di uno sconvolgimento finanziario: vendite sui mercati dei bond, correzioni dell’azionario, volatilità delle valute. Al limite, un’ampia flessione delle quotazioni potrebbe annullare molto dello stimolo oggi fornito » .
Non è solo una questione di mercati finanziari. La pandemia ha portato inevitabilmente un forte aumento dei debiti che, secondo Standard & Poor’s ( S& P’s) hanno raggiunto a livello globale il 267% del Pil a fine 2020. Un aumento “ingiustificato” dei tassi può mettere sotto tensione i bilanci delle imprese, e non c’è nulla di più duraturo - la storia recente del Giappone lo ricorda - di una balance sheet recession.
Il problema vero, però, è che l’exit strategy deve smantellare un intervento davvero estremo, sia in termini di dimensioni che di invasività. Nel 2013 l’annuncio, forse prematuro, forse maldestro, di una riduzione del quantitative easing della Fed generò un’ondata di instabilità finanziaria in tutto il mondo. Un esito da evitare.
Non basta. Le banche centrali, sottolinea una ricerca di S& P’s sono diventati investitori cruciali su molti mercati. « Come possono i mercati -
Se i mercati chiedono tassi più alti di quelli voluti dalla banca centrale aumentano i rischi di instabilità
si chiedono gli analisti in Central Banks, Credit Markets, And The Catch
22 Taper - tornare in una situazione di maggiore indipendenza, di minor fiducia nel sostegno della banca centrale e come possono le banche centrali continuare a sostenere la ripresa mentre implementano un’exit strategy che non deteriori la stabilità di mercato? » . È un’operazione che richiederà un « delicato equilibrio e una chiara comunicazione » .
È comprensibile allora il tentativo della Bce, evidente ieri, di smussare gli angoli: i rendimenti dei bond, a marzo giudicati fondamentali, ora sono diventati un elemento come gli altri ( non senza ragioni: al momento le tensioni sui bond sono rimaste isolate). Allo stesso modo, la presidente Christine Lagarde non ha risposto - neanche indirettamente, come avrebbe potuto - a una domanda sulle parole del governatore olandese Klaas Knot, secondo il quale occorre presto ridimensionare gli acquisti del piano pandemico Pepp, per concluderlo a marzo 2022. È il preannuncio di un ritrovato confronto - tutto politico, e tutto interno alla Bce - tra falchi e colombe, che che potrebbe creare ulteriori tensioni sui mercati.