SUPREMAZIA DA RISTABILIRE TRA PM E POLIZIA
Credo sia davvero il momento per affrontare, seppur in modo necessariamente sintetico, uno di più rilevanti, e sottovalutati, problemi che affliggono e deturpano il panorama giuridico italiano: l’intreccio tra la magistratura inquirente – alias, i pubblici ministeri – e la polizia giudiziaria ( accenneremo, infine, anche al ruolo della stampa, quale indispensabile protagonista del sistema giudiziario- mediatico).
Nel discutere di questo argomento, non si può che partire ricordando la norma costituzionale ai sensi della quale « l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria » ( art. 109): letta al contrario, e in modo semplificatissimo, la polizia giudiziaria è a diretta disposizione dell’autorità giudiziaria.
Dal punto di vista sistemico, nessun dubbio sulla “supremazia” dell’una ( Ag) sull’altra ( Pg): entrambe, tuttavia, autorità giudiziaria e polizia giudiziaria, parti fondamentali del sistema giudiziario, di quel sistema, cioè, che incide, in modo prorompente, sulla vita delle persone ( fisiche, soprattutto, ma anche giuridiche): proprio a causa delle potenzialità dell’impatto delle iniziative giudiziarie, è necessario chiarire se l’architettura procedurale disegnata sia o meno aderente alla realtà o se, viceversa, come credo sostanzialmente, i rapporti tra Pg e Ag siano rovesciati rispetto a quello che è, a monte, il disegno costituzionale.
La permanenza della distinzione dei ruoli, innanzitutto, è fondamentale: ma non sempre è così, anzi quasi sempre non è così. Se il pubblico ministero si rimette completamente alla attività della polizia giudiziaria, se ne aspetta, senza guidarne gli accadimenti, le “valutazioni e proposte”, se le relazioni della polizia giudiziaria sono sovente romanzi – peraltro, a volte, di difficile lettura – intrisi di valutazioni soggettive, se ampi stralci di queste narrazioni finiscono sui giornali, se tutto questo accade – e, purtroppo, accade quasi sempre –, il sistema procedurale disegnato va, come è, in frantumi.
L’indispensabile connubio autorità giudiziaria- polizia giudiziaria deve essere riportato a ragione, perché, ed è l’aspetto su cui vorrei soffermarmi con maggiore enfasi, dobbiamo, a monte, ricercare le ragioni profonde che portano a sostenere la necessità che il pubblico ministero sia ancora parte della magistratura unitariamente intesa.
Una strada difficile, e per questo poco battuta, è l’articolo 358 del Codice di procedura penale, ai sensi del quale « il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 320 ( n. d. a. per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale) e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini » . Questa è, a mio avviso, la logica, l’unica logica, che offre un senso compiuto alla permanenza del pubblico ministero all’interno della magistratura.
Qualunque magistrato, in qualunque fase del procedimento, ha un unico obbligo: la ricerca e l’affermazione della verità.
E la verità presuppone che, sin da subito, a monte, le indagini siano dirette e coordinate non da un’attività di parte ( l’avvocato dell’accusa con i suoi pretoriani), ma da magistrati che abbiano a cuore solo la ricerca della verità.
E la verità si basa sulla inoppugnabilità dei fatti, non sulle congetture o sulle romanzate ricostruzioni di chi, operando con mentalità di parte, non è proteso esclusivamente alla ricerca della verità, ma alla ricerca di una precostituita propria verità.
È su questo che ci si deve confrontare: non si deve confondere l’essere “parte” nel processo, con lo svolgere attività “di parte”.
Perché, se fosse vero il contrario, e, cioè, se il pubblico ministero dovesse essere chiamato a svolgere solo un’attività di parte, un’attività – cioè – parziale, non si spiegherebbe il mantenimento nella magistratura unitariamente intesa in cui non possono coesistere magistrati di parte e giudici terzi.
Il principio della obbligatorietà dell’azione penale ( art. 112 della Costituzione) è un principio di certo assoluto, che, letto alla luce delle disposizioni codicistiche, assume una valenza se possibile ancor più pregnante, atteso che lo stesso vale se, e solo se, non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione ( art. 50, c. 1, del Codice di procedura penale ).
Esercitare l’azione penale significa aver l’obbligo di non insabbiare e di verificare la veridicità dei fatti; significa, soprattutto, aver l’obbligo di sezionare, da subito, le eventuali responsabilità: non significa voler, a tutti i costi, attribuire responsabilità o imputare una colpa anche quando non vi è alcuna colpa da imputare. La ricerca della verità comporta la missione di separare il rilevante dall’irrilevante, la sostanza dalla forma, i fatti dai rumori di fondo; è il valore più caratteristico dell’attività degli inquirenti, il valore supremo in rapporto al quale tutte le altre attività sono chiamate a giustificare la propria importanza.
La ricerca della verità è non solo il fine ultimo, ma il prerequisito funzionale della giustizia, cioè dell’esistenza dell’ordine giudiziario e, massimamente, della permanenza del pubblico ministero nell’ordine giudiziario.
Nel campo della tutela dei diritti, non vi è alternativa a una ricerca corretta e completa della verità.
Perché l’articolo 358 del Codice di procedura penale non viene esaltato per come pure meriterebbe? Perché è una norma scomoda, una norma priva, di fatto, di conseguenze ( non sono certo previste sanzioni a carico del pubblico ministero che non svolga accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini) e, come tale, scarsamente tenuta in considerazione.
Eppure, da tale norma, e dalla sua applicazione vera, può trarsi l’auspicio che nella magistratura inquirente e nella polizia giudiziaria ( oltre che nei media) cresca una sorta di interesse per gli altri, abbandonando ogni forma di prevaricazione nei confronti delle persone che dovrebbero vedere, nei rappresentanti dello Stato, baluardi di giustizia e non vaniloquenti personaggi in cerca di personale, risibile notorietà.
La giustizia deve tutelare la libertà e, prima ancora, la dignità: non essere uno strumento di cui aver paura, per la carica di aggressività che promana o può promanare da chi si ritiene, non si sa bene perché, custode unico della “integrità”.
Non si può aver paura della giustizia: paura e giustizia sono due concetti che, per definizione, si elidono a vicenda.
LA RICERCA DELLA VERITÀ PRESUPPONE CHE LE INDAGINI SIANO DIRETTE E COORDINATE DAI MAGISTRATI