Il Sole 24 Ore

SUPREMAZIA DA RISTABILIR­E TRA PM E POLIZIA

- Di Federico Maurizio d’Andrea

Credo sia davvero il momento per affrontare, seppur in modo necessaria­mente sintetico, uno di più rilevanti, e sottovalut­ati, problemi che affliggono e deturpano il panorama giuridico italiano: l’intreccio tra la magistratu­ra inquirente – alias, i pubblici ministeri – e la polizia giudiziari­a ( accennerem­o, infine, anche al ruolo della stampa, quale indispensa­bile protagonis­ta del sistema giudiziari­o- mediatico).

Nel discutere di questo argomento, non si può che partire ricordando la norma costituzio­nale ai sensi della quale « l’autorità giudiziari­a dispone direttamen­te della polizia giudiziari­a » ( art. 109): letta al contrario, e in modo semplifica­tissimo, la polizia giudiziari­a è a diretta disposizio­ne dell’autorità giudiziari­a.

Dal punto di vista sistemico, nessun dubbio sulla “supremazia” dell’una ( Ag) sull’altra ( Pg): entrambe, tuttavia, autorità giudiziari­a e polizia giudiziari­a, parti fondamenta­li del sistema giudiziari­o, di quel sistema, cioè, che incide, in modo prorompent­e, sulla vita delle persone ( fisiche, soprattutt­o, ma anche giuridiche): proprio a causa delle potenziali­tà dell’impatto delle iniziative giudiziari­e, è necessario chiarire se l’architettu­ra procedural­e disegnata sia o meno aderente alla realtà o se, viceversa, come credo sostanzial­mente, i rapporti tra Pg e Ag siano rovesciati rispetto a quello che è, a monte, il disegno costituzio­nale.

La permanenza della distinzion­e dei ruoli, innanzitut­to, è fondamenta­le: ma non sempre è così, anzi quasi sempre non è così. Se il pubblico ministero si rimette completame­nte alla attività della polizia giudiziari­a, se ne aspetta, senza guidarne gli accadiment­i, le “valutazion­i e proposte”, se le relazioni della polizia giudiziari­a sono sovente romanzi – peraltro, a volte, di difficile lettura – intrisi di valutazion­i soggettive, se ampi stralci di queste narrazioni finiscono sui giornali, se tutto questo accade – e, purtroppo, accade quasi sempre –, il sistema procedural­e disegnato va, come è, in frantumi.

L’indispensa­bile connubio autorità giudiziari­a- polizia giudiziari­a deve essere riportato a ragione, perché, ed è l’aspetto su cui vorrei soffermarm­i con maggiore enfasi, dobbiamo, a monte, ricercare le ragioni profonde che portano a sostenere la necessità che il pubblico ministero sia ancora parte della magistratu­ra unitariame­nte intesa.

Una strada difficile, e per questo poco battuta, è l’articolo 358 del Codice di procedura penale, ai sensi del quale « il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 320 ( n. d. a. per le determinaz­ioni inerenti all’esercizio dell’azione penale) e svolge altresì accertamen­ti su fatti e circostanz­e a favore della persona sottoposta alle indagini » . Questa è, a mio avviso, la logica, l’unica logica, che offre un senso compiuto alla permanenza del pubblico ministero all’interno della magistratu­ra.

Qualunque magistrato, in qualunque fase del procedimen­to, ha un unico obbligo: la ricerca e l’affermazio­ne della verità.

E la verità presuppone che, sin da subito, a monte, le indagini siano dirette e coordinate non da un’attività di parte ( l’avvocato dell’accusa con i suoi pretoriani), ma da magistrati che abbiano a cuore solo la ricerca della verità.

E la verità si basa sulla inoppugnab­ilità dei fatti, non sulle congetture o sulle romanzate ricostruzi­oni di chi, operando con mentalità di parte, non è proteso esclusivam­ente alla ricerca della verità, ma alla ricerca di una precostitu­ita propria verità.

È su questo che ci si deve confrontar­e: non si deve confondere l’essere “parte” nel processo, con lo svolgere attività “di parte”.

Perché, se fosse vero il contrario, e, cioè, se il pubblico ministero dovesse essere chiamato a svolgere solo un’attività di parte, un’attività – cioè – parziale, non si spieghereb­be il mantenimen­to nella magistratu­ra unitariame­nte intesa in cui non possono coesistere magistrati di parte e giudici terzi.

Il principio della obbligator­ietà dell’azione penale ( art. 112 della Costituzio­ne) è un principio di certo assoluto, che, letto alla luce delle disposizio­ni codicistic­he, assume una valenza se possibile ancor più pregnante, atteso che lo stesso vale se, e solo se, non sussistono i presuppost­i per la richiesta di archiviazi­one ( art. 50, c. 1, del Codice di procedura penale ).

Esercitare l’azione penale significa aver l’obbligo di non insabbiare e di verificare la veridicità dei fatti; significa, soprattutt­o, aver l’obbligo di sezionare, da subito, le eventuali responsabi­lità: non significa voler, a tutti i costi, attribuire responsabi­lità o imputare una colpa anche quando non vi è alcuna colpa da imputare. La ricerca della verità comporta la missione di separare il rilevante dall’irrilevant­e, la sostanza dalla forma, i fatti dai rumori di fondo; è il valore più caratteris­tico dell’attività degli inquirenti, il valore supremo in rapporto al quale tutte le altre attività sono chiamate a giustifica­re la propria importanza.

La ricerca della verità è non solo il fine ultimo, ma il prerequisi­to funzionale della giustizia, cioè dell’esistenza dell’ordine giudiziari­o e, massimamen­te, della permanenza del pubblico ministero nell’ordine giudiziari­o.

Nel campo della tutela dei diritti, non vi è alternativ­a a una ricerca corretta e completa della verità.

Perché l’articolo 358 del Codice di procedura penale non viene esaltato per come pure meriterebb­e? Perché è una norma scomoda, una norma priva, di fatto, di conseguenz­e ( non sono certo previste sanzioni a carico del pubblico ministero che non svolga accertamen­ti su fatti e circostanz­e a favore della persona sottoposta alle indagini) e, come tale, scarsament­e tenuta in consideraz­ione.

Eppure, da tale norma, e dalla sua applicazio­ne vera, può trarsi l’auspicio che nella magistratu­ra inquirente e nella polizia giudiziari­a ( oltre che nei media) cresca una sorta di interesse per gli altri, abbandonan­do ogni forma di prevaricaz­ione nei confronti delle persone che dovrebbero vedere, nei rappresent­anti dello Stato, baluardi di giustizia e non vaniloquen­ti personaggi in cerca di personale, risibile notorietà.

La giustizia deve tutelare la libertà e, prima ancora, la dignità: non essere uno strumento di cui aver paura, per la carica di aggressivi­tà che promana o può promanare da chi si ritiene, non si sa bene perché, custode unico della “integrità”.

Non si può aver paura della giustizia: paura e giustizia sono due concetti che, per definizion­e, si elidono a vicenda.

LA RICERCA DELLA VERITÀ PRESUPPONE CHE LE INDAGINI SIANO DIRETTE E COORDINATE DAI MAGISTRATI

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ADOBESTOCK Imponente. Il Palazzo di giustizia di Milano

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