I prosciutti di Kometa sfidano il made in Italy con i costi dell’Ungheria
È ormai da qualche anno, che il prosciutto cotto e ancor di più il petto di tacchino al forno Kometa vengono venduti a fette al banco salumi di diversi supermercati italiani. Da Auchan a Conad, da Lidl a Coop. Ora però il marchio ha deciso di farsi conoscere, di diventare un brand: campagna pubblicitaria sulla stampa nazionale, presenza sui social, la novità delle vaschette preaffettate con il logo della società ben impresso sulla confezione. Persino la sponsorizzazione ( insieme a Eolo) del team di ciclisti di Ivan Basso e Alberto Contador che domani farà il suo debutto al 104° Giro d’Italia.
Un fatturato 2020 di 150 milioni di euro, il doppio di quanto incassava nel 2016, 750mila suini macellati all’anno, 17mila tonnellate di salumi prodotti, 850 dipendenti. Quale è la particolarità di Kometa? Che si tratta di un’azienda ungherese fondata a Kaposvar nel
1999 e che produce solo in Ungheria. Solo che a fondarla è stato un italiano.
Che cosa rende il made in Italy veramente italiano, le materie prime o il saper fare? Si può realizzare insomma un prodotto alimentare “all’italiana”, ma fuori dall’Italia?
Con il concetto di delocalizzazione Kometa non c’entra nulla, per il semplice fatto che l’azienda non è nata in Italia. Ernesto Pedranzini, il suo fondatore, dopo la caduta del Muro di Berlino ebbe l’intuizione di investire in Ungheria in un grosso macello statale da 150mila metri quadrati. La famiglia arrivava dalla Valtellina e sapeva bene come si fanno i salumi a regola d’arte. Così, trent’anni fa, a Kaposvar è cominciata la produzione di prosciutti di alta qualità. Filiera corta, mangimi controllati, produzione sostenibile, nessun animale di importazione.
In pochi anni Kometa è cresciuta, fino ad esportare in 40 Paesi, ma più di tutti in Italia. « Nei nostri salumi c’è il saper fare italiano, sommato alla scelta delle migliori materie prime ungheresi » , racconta Giacomo Pedranzini, che di Ernesto è il figlio e accanto a lui ha seguito l’avventura di Kaposvar fin dal primo passo, quando per arrivarci da Bormio viaggiavano in auto tutta la notte. « In Italia, soprattutto dopo la pandemia, si parla tanto di cibo made in Italy e di filiera corta e controllata, ma l’ 85% delle carni che vengono usate per fare i salumi vengono importate » , ricorda. Ed eccolo qui, il grande tema sul tavolo: un vestito disegnato in Italia ma prodotto altrove rientra nel made in Italy. Un alimento realizzato all’italiana e prodotto a Kaposvar è made in Ungheria, certo: ma se venisse percepito un po’ italiano per via del saper fare?
Kometa, nel suo piccolo, potrebbe aver aperto una via inedita. L’azienda non produce falso made in Italy: anche se il tricolore stilizzato sotto il marchio potrebbe trarre in inganno, il caso vuole che siano gli stessi colori della bandiera di Budapest. Kometa dichiara apertamente di essere ungherese, e sostiene di fare prosciutti di alta gamma, “free from” ( cioè liberi da allergeni, come il glutine o il lattosio) proprio come va di moda oggi tra i consumatori. Sceglie le migliori carni ungheresi e ha la filiera corta. In più, ci mette il saper fare italiano. « Siamo nell’Unione europea non solo quando ci fa comodo - dice Pedranzini - portiamo sul mercato un prodotto buono, sano e accessibile. Gli italiani ci sceglieranno per questo » .
Anche al tema della sostenibilità, che oggi nei Paesi occidentali è un must, viene dato molto peso: « Il nostro stabilimento - sostiene l’amministratore delegato, Amadio Contenti - è uno dei pochi in Europa a riunire sotto lo stesso tetto tutte le fasi produttive, dalla macellazione al confezionamento finale dei salumi. Abbiamo investito in innovazione per ridurre il consumo di acqua e di energia e ad agosto dell’anno scorso abbiamo ultimato il più grande impianto di tutta l’Ungheria per trasformare il vapore della produzione in riscaldamento dell’acqua. Infine, abbiamo una tecnologia per trasformare gli scarti, soprattutto ossa e parti molli, in farina destinata al petfood » .
Kometa ha obiettivi ambiziosi: « Il piano di sviluppo al 2025 prevede investimenti per 100 milioni di euro - dice l’ad Contenti - raddoppieremo lo stabilimento produttivo di Kaposvar, in modo che tra cinque anni possiamo anche raddoppiare il fatturato e raggiungere i 350 milioni di euro » . E allo studio c’è anche l’ipotesi di venire a produrre in Italia.