IL MODELLO SOCIALE EUROPEO ALLA PROVA DELLA PANDEMIA
Il vertice europeo in corso a Porto non è uno di quei summit in cui “o si fa l’Europa o si muore”. Tuttavia, tre anni e mezzo dopo il summit di Göteborg, si tratta di un’occasione di confronto non scontata sull’idea di Europa sociale. Le ragioni dell’urgenza sono evidenti a tutti i Paesi: già prima dell’arrivo del Covid- 19, il “modello sociale europeo” ( se mai è veramente esistito “un” modello europeo) mostrava tutti i suoi limiti, tra povertà e disuguaglianze in crescita). La pandemia, poi, ha portato alla luce tanti dei limiti dei sistemi di welfare continentali.
Questo vertice, quindi, ha una rilevanza politica chiara, ma anche una dimensione pratica. Infatti è uno dei momenti più significativi della presidenza portoghese del Consiglio dell’Unione Europea, che ha messo il rafforzamento del modello sociale europeo tra le sue priorità, con l’obiettivo di passare dai principi generali di Göteborg alle azioni concrete.
Anche se nessuno nega l’importanza di una ripresa che non abbia solo al centro la transizione ecologica e digitale, ma anche un forte carattere sociale, non c’è unanimità sui modi. Per alcuni Paesi è sufficiente stabilire degli obiettivi comuni ( il vertice fisserà dei target in termini di occupazione, povertà e formazione) lasciando agli Stati di trovare gli strumenti e i modi. Per altri Paesi, invece, l’Europa deve dotarsi di strumenti comuni, sul piano normativo o finanziario, per aiutare i Paesi a raggiungere questi obiettivi.
Le posizioni in materia non riflettono necessariamente le coalizioni standard tra falchi e colombe o tra centro e periferia. Tra i Paesi che ritengono che l’Europa debba limitarsi a stabilire alcuni obiettivi generali, senza interferire con le norme e gli strumenti nazionali ci sono, in particolare, i Paesi scandinavi nonostante siano i campioni mondiali dello stato sociale e abbiano leader che fanno parte del Partito socialista europeo. In questi Paesi, infatti, molti aspetti del welfare sono demandati alle parti sociali e c’è una fortissima ritrosia all’intervento pubblico nazionale e ancora di più europeo. Questi Paesi hanno ragione a sottolineare che un’Europa sociale non significa necessariamente nuove direttive, nuovi regolamenti o nuovi fondi.
Al contrario di quanto a volte sembrino invocare i più europeisti tra i politici e i commentatori, l’Unione Europea non deve intervenire su tutto a prescindere ma solo in quegli ambiti in cui c’è un valore aggiunto ad agire insieme. Tuttavia, in campo sociale, la Ue deve occuparsi di rispondere ai rischi che essa stessa genera, per esempio quelli causati dalla mobilità di persone, merci, servizi e capitali oppure dagli accordi commerciali internazionali oppure ancora dalla specializzazione produttiva in pochi grandi hub del continente ( alcune grandi città o grandi porti e aeroporti o alcuni cluster industriali) a scapito di altre zone. Anche la transizione ecologica e digitale che la Ue vuole promuovere con i piani nazionali di ripresa e resilienza non sarà senza costi: ci sono interi settori da ristrutturare e
L’Unione ha bisogno di strumenti adeguati a gestire gli squilibri strutturali provocati dalle transizioni
convertire. Per i lavoratori significa nuove competenze da acquisire, ma magari anche un nuovo posto in cui vivere e lavorare. I costi di questa transizione rischiano di essere immediati a fronte di benefici nel medio e lungo periodo.
Per questo motivo target comuni sono utili ma non bastano. L’Unione Europea ha bisogno anche di strumenti appropriati per essere in grado di far fronte alle crisi, ma anche di gestire gli squilibri strutturali ( tra Paesi e all’interno dei Paesi) che queste transizioni potrebbero provocare. Da tempo esistono il Fondo sociale europeo o il Fondo di adeguamento alla globalizzazione ma Next Generation EU e SURE ( lo strumento di rifinanziamento della cassa integrazione) sono i primi passi sostanziali ( e sostanziosi) che sono stati fatti per ribilanciare le asimmetrie che si creano con una politica monetaria comune e politiche fiscali nazionali. È presto per parlare di come assicurarne una qualche continuità e di come rivedere le regole di debito e deficit. Innanzitutto, soprattutto per un Paese come l’Italia bisogna dimostrare di saper spendere e spendere bene i soldi che sono stati messi a disposizione. Ma la questione dell’Europa sociale non si chiude certamente con il Summit di Porto.