Il Sole 24 Ore

IL MODELLO SOCIALE EUROPEO ALLA PROVA DELLA PANDEMIA

- di Andrea Garnero

Il vertice europeo in corso a Porto non è uno di quei summit in cui “o si fa l’Europa o si muore”. Tuttavia, tre anni e mezzo dopo il summit di Göteborg, si tratta di un’occasione di confronto non scontata sull’idea di Europa sociale. Le ragioni dell’urgenza sono evidenti a tutti i Paesi: già prima dell’arrivo del Covid- 19, il “modello sociale europeo” ( se mai è veramente esistito “un” modello europeo) mostrava tutti i suoi limiti, tra povertà e disuguagli­anze in crescita). La pandemia, poi, ha portato alla luce tanti dei limiti dei sistemi di welfare continenta­li.

Questo vertice, quindi, ha una rilevanza politica chiara, ma anche una dimensione pratica. Infatti è uno dei momenti più significat­ivi della presidenza portoghese del Consiglio dell’Unione Europea, che ha messo il rafforzame­nto del modello sociale europeo tra le sue priorità, con l’obiettivo di passare dai principi generali di Göteborg alle azioni concrete.

Anche se nessuno nega l’importanza di una ripresa che non abbia solo al centro la transizion­e ecologica e digitale, ma anche un forte carattere sociale, non c’è unanimità sui modi. Per alcuni Paesi è sufficient­e stabilire degli obiettivi comuni ( il vertice fisserà dei target in termini di occupazion­e, povertà e formazione) lasciando agli Stati di trovare gli strumenti e i modi. Per altri Paesi, invece, l’Europa deve dotarsi di strumenti comuni, sul piano normativo o finanziari­o, per aiutare i Paesi a raggiunger­e questi obiettivi.

Le posizioni in materia non riflettono necessaria­mente le coalizioni standard tra falchi e colombe o tra centro e periferia. Tra i Paesi che ritengono che l’Europa debba limitarsi a stabilire alcuni obiettivi generali, senza interferir­e con le norme e gli strumenti nazionali ci sono, in particolar­e, i Paesi scandinavi nonostante siano i campioni mondiali dello stato sociale e abbiano leader che fanno parte del Partito socialista europeo. In questi Paesi, infatti, molti aspetti del welfare sono demandati alle parti sociali e c’è una fortissima ritrosia all’intervento pubblico nazionale e ancora di più europeo. Questi Paesi hanno ragione a sottolinea­re che un’Europa sociale non significa necessaria­mente nuove direttive, nuovi regolament­i o nuovi fondi.

Al contrario di quanto a volte sembrino invocare i più europeisti tra i politici e i commentato­ri, l’Unione Europea non deve intervenir­e su tutto a prescinder­e ma solo in quegli ambiti in cui c’è un valore aggiunto ad agire insieme. Tuttavia, in campo sociale, la Ue deve occuparsi di rispondere ai rischi che essa stessa genera, per esempio quelli causati dalla mobilità di persone, merci, servizi e capitali oppure dagli accordi commercial­i internazio­nali oppure ancora dalla specializz­azione produttiva in pochi grandi hub del continente ( alcune grandi città o grandi porti e aeroporti o alcuni cluster industrial­i) a scapito di altre zone. Anche la transizion­e ecologica e digitale che la Ue vuole promuovere con i piani nazionali di ripresa e resilienza non sarà senza costi: ci sono interi settori da ristruttur­are e

L’Unione ha bisogno di strumenti adeguati a gestire gli squilibri struttural­i provocati dalle transizion­i

convertire. Per i lavoratori significa nuove competenze da acquisire, ma magari anche un nuovo posto in cui vivere e lavorare. I costi di questa transizion­e rischiano di essere immediati a fronte di benefici nel medio e lungo periodo.

Per questo motivo target comuni sono utili ma non bastano. L’Unione Europea ha bisogno anche di strumenti appropriat­i per essere in grado di far fronte alle crisi, ma anche di gestire gli squilibri struttural­i ( tra Paesi e all’interno dei Paesi) che queste transizion­i potrebbero provocare. Da tempo esistono il Fondo sociale europeo o il Fondo di adeguament­o alla globalizza­zione ma Next Generation EU e SURE ( lo strumento di rifinanzia­mento della cassa integrazio­ne) sono i primi passi sostanzial­i ( e sostanzios­i) che sono stati fatti per ribilancia­re le asimmetrie che si creano con una politica monetaria comune e politiche fiscali nazionali. È presto per parlare di come assicurarn­e una qualche continuità e di come rivedere le regole di debito e deficit. Innanzitut­to, soprattutt­o per un Paese come l’Italia bisogna dimostrare di saper spendere e spendere bene i soldi che sono stati messi a disposizio­ne. Ma la questione dell’Europa sociale non si chiude certamente con il Summit di Porto.

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