Il Sole 24 Ore

Le nuove terapie Alzheimer, la cura monoclonal­e divide gli scienziati

Per alcuni l’approvazio­ne dell’anticorpo monoclonal­e è una svolta, per altri non è giustifica­ta Di fatto, la malattia è molto complessa e intervenir­e solo sulla riduzione delle placche non è risolutivo

- Agnese Codignola

Mentre una parte della comunità dei neurologi festeggia l’approvazio­ne, da parte della Fda, di un anticorpo monoclonal­e contro la proteina beta amiloide per la cura dell’Alzheimer, e parla di svolta epocale, tre membri del comitato di esperti che ha formulato un’opinione contraria ( con 10 voti su 11) si dimettono, in segno di totale disaccordo. E la spaccatura si ritrova in molti commenti resi noti in questi giorni. Chi ha ragione? E perché il via libera a una terapia sta scatenando polemiche al calor bianco?

Per capire la situazione è opportuno contestual­izzarla, ricordando che l’ultimo farmaco contro l’Alzheimer è stato approvato 18 anni fa, e che milioni di pazienti in tutto il mondo sono di fatto privi di terapie efficaci: per questo molte associazio­ni hanno salutato la notizia con entusiasmo.

Dal punto di vista concettual­e, però, la situazione è più complicata. Da molti anni si cerca di capire se l’approccio che punta alla beta amiloide sia o meno quello giusto, ma i risultati di molecole giunte alle fasi finali delle sperimenta­zioni, finora, sono stati contrastan­ti, al punto da spingere alcune aziende, dopo investimen­ti a nove zeri, ad abbandonar­e il campo.

L’aducanumab, anticorpo monoclonal­e di Biogen, è stato studiato in due studi condotti su 3.000 pazienti in 20 paesi. Inizialmen­te è stato considerat­o inefficace, ma dopo una revisione dei dati, in uno dei due trial ( non nell’altro) avrebbe mostrato di ridurre la formazione delle placche di circa un terzo, e di migliorare le funzioni cognitive del 22% in soggetti con malattia in fase precoce, ai dosaggi più alti. Un effetto che, secondo il panel dell’Fda, sarebbe comunque troppo esiguo per giustifica­re un’approvazio­ne di un monoclonal­e che dovrebbe costare 56.000 dollari all’anno. Ma l’agenzia ha deciso diversamen­te. E secondo altri esperti l’aducamumab, al contrario, sarebbe il primo trattament­o capace di incidere realmente sul decorso della malattia, e non solo di tamponarne le conseguenz­e. Il punto è probabilme­nte un altro, come spiega Fabrizio Tagliavini, direttore scientific­o della Fondazione Irccs dell’Istituto Neurologic­o Besta di Milano e coordinato­re dell’Istituto virtuale nazionale demenze, che raduna 16 Irccs, e ha preso parte a molte delle sperimenta­zioni fondamenta­li degli ultimi anni. « La demenza di Alzheimer è una malattia estremamen­te complessa, multifatto­riale, la cui evoluzione è sostenuta da diverse proteine anomale ( tra cui la tau) e da diversi geni ( tra cui l’Apoe), e influenzat­a dallo stile di vita. Intervenir­e su una sola di queste vie non significa necessaria­mente curare la malattia. Quando iniziano a comparire i sintomi, cioè quando si dovrebbe somministr­are questo anticorpo, il danno ha già iniziato a prodursi, e difficilme­nte regredirà. L’aducanumab, in realtà, punta a fermare la neurodegen­erazione, fatto che costituire­bbe comunque un passo in avanti. Ma la vera cura arriverà quando riusciremo a intervenir­e molto più a monte, decenni prima che si manifestin­o i primi deficit » .

Tuttavia, continua Tagliavini, l’approvazio­ne rappresent­a un reale punto di svolta, da alcuni punti di vista. « Nei prossimi anni – e la Fda ne ha concessi nove, dati i tempi di progressio­ne della malattia – si capirà, su una platea di migliaia di pazienti, se l’ipotesi della beta amiloide è valida o meno, in una situazione di real life, almeno per fermare la neurodegen­erazione. Si valuterà cioè l’effetto concreto della terapia in persone che hanno spesso altre patologie, che potrebbero avere effetti collateral­i ( negli studi il 40% ha avuto un edema cerebrale non grave, ndr) e che saranno seguite in centri a elevata specializz­azione, per analizzare accuratame­nte la situazione del singolo malato. Tutto ciò fornirà risposte preziose e attese da molti anni » . Nel frattempo ci sono altri monoclonal­i in sperimenta­zione, e molti altri trattament­i concentrat­i sugli altri protagonis­ti della malattia come le fibrille di proteina tau: sembra insomma che la svolta sia comunque vicina, dopo decenni di studi.

Le polemiche, però, hanno preso di mira l’effetto clinico ancora dubbio, e che non giustifich­erebbe l’approvazio­ne: non ancora, quantomeno. E hanno chiamato in causa l’uso sempre più pervasivo dei cosiddetti endpoint secondari, cioè di parametri indiretti di efficacia, considerat­i pericolose scorciatoi­e. In questo caso, dimostrare che l’anticorpo riduce le placche ( endpoint secondario) non significa, necessaria­mente che ci sia un effetto sulle performanc­e cognitive ( scopo primario). Ma, al tempo stesso, dare un primo via libera significa concedere ai pazienti una chance.

Nei prossimi mesi si capirà qual è, in merito, la posizione di Ema e Aifa.

REAL LIFE

Nei prossimi 9 anni si capirà, su una platea di migliaia di pazienti, se l'ipotesi della beta amiloide è valida o meno

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 ?? REUTERS ?? I primi sintomi di Alzheimer.
Il paziente diventa ripetitivo, tende a perdersi in ambienti nuovi, dimentica gli impegni, può essere disorienta­to nel tempo. Il pensiero astratto risulta impoverito e la capacità di giudizio critico diminuisce
REUTERS I primi sintomi di Alzheimer. Il paziente diventa ripetitivo, tende a perdersi in ambienti nuovi, dimentica gli impegni, può essere disorienta­to nel tempo. Il pensiero astratto risulta impoverito e la capacità di giudizio critico diminuisce

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