Le nuove terapie Alzheimer, la cura monoclonale divide gli scienziati
Per alcuni l’approvazione dell’anticorpo monoclonale è una svolta, per altri non è giustificata Di fatto, la malattia è molto complessa e intervenire solo sulla riduzione delle placche non è risolutivo
Mentre una parte della comunità dei neurologi festeggia l’approvazione, da parte della Fda, di un anticorpo monoclonale contro la proteina beta amiloide per la cura dell’Alzheimer, e parla di svolta epocale, tre membri del comitato di esperti che ha formulato un’opinione contraria ( con 10 voti su 11) si dimettono, in segno di totale disaccordo. E la spaccatura si ritrova in molti commenti resi noti in questi giorni. Chi ha ragione? E perché il via libera a una terapia sta scatenando polemiche al calor bianco?
Per capire la situazione è opportuno contestualizzarla, ricordando che l’ultimo farmaco contro l’Alzheimer è stato approvato 18 anni fa, e che milioni di pazienti in tutto il mondo sono di fatto privi di terapie efficaci: per questo molte associazioni hanno salutato la notizia con entusiasmo.
Dal punto di vista concettuale, però, la situazione è più complicata. Da molti anni si cerca di capire se l’approccio che punta alla beta amiloide sia o meno quello giusto, ma i risultati di molecole giunte alle fasi finali delle sperimentazioni, finora, sono stati contrastanti, al punto da spingere alcune aziende, dopo investimenti a nove zeri, ad abbandonare il campo.
L’aducanumab, anticorpo monoclonale di Biogen, è stato studiato in due studi condotti su 3.000 pazienti in 20 paesi. Inizialmente è stato considerato inefficace, ma dopo una revisione dei dati, in uno dei due trial ( non nell’altro) avrebbe mostrato di ridurre la formazione delle placche di circa un terzo, e di migliorare le funzioni cognitive del 22% in soggetti con malattia in fase precoce, ai dosaggi più alti. Un effetto che, secondo il panel dell’Fda, sarebbe comunque troppo esiguo per giustificare un’approvazione di un monoclonale che dovrebbe costare 56.000 dollari all’anno. Ma l’agenzia ha deciso diversamente. E secondo altri esperti l’aducamumab, al contrario, sarebbe il primo trattamento capace di incidere realmente sul decorso della malattia, e non solo di tamponarne le conseguenze. Il punto è probabilmente un altro, come spiega Fabrizio Tagliavini, direttore scientifico della Fondazione Irccs dell’Istituto Neurologico Besta di Milano e coordinatore dell’Istituto virtuale nazionale demenze, che raduna 16 Irccs, e ha preso parte a molte delle sperimentazioni fondamentali degli ultimi anni. « La demenza di Alzheimer è una malattia estremamente complessa, multifattoriale, la cui evoluzione è sostenuta da diverse proteine anomale ( tra cui la tau) e da diversi geni ( tra cui l’Apoe), e influenzata dallo stile di vita. Intervenire su una sola di queste vie non significa necessariamente curare la malattia. Quando iniziano a comparire i sintomi, cioè quando si dovrebbe somministrare questo anticorpo, il danno ha già iniziato a prodursi, e difficilmente regredirà. L’aducanumab, in realtà, punta a fermare la neurodegenerazione, fatto che costituirebbe comunque un passo in avanti. Ma la vera cura arriverà quando riusciremo a intervenire molto più a monte, decenni prima che si manifestino i primi deficit » .
Tuttavia, continua Tagliavini, l’approvazione rappresenta un reale punto di svolta, da alcuni punti di vista. « Nei prossimi anni – e la Fda ne ha concessi nove, dati i tempi di progressione della malattia – si capirà, su una platea di migliaia di pazienti, se l’ipotesi della beta amiloide è valida o meno, in una situazione di real life, almeno per fermare la neurodegenerazione. Si valuterà cioè l’effetto concreto della terapia in persone che hanno spesso altre patologie, che potrebbero avere effetti collaterali ( negli studi il 40% ha avuto un edema cerebrale non grave, ndr) e che saranno seguite in centri a elevata specializzazione, per analizzare accuratamente la situazione del singolo malato. Tutto ciò fornirà risposte preziose e attese da molti anni » . Nel frattempo ci sono altri monoclonali in sperimentazione, e molti altri trattamenti concentrati sugli altri protagonisti della malattia come le fibrille di proteina tau: sembra insomma che la svolta sia comunque vicina, dopo decenni di studi.
Le polemiche, però, hanno preso di mira l’effetto clinico ancora dubbio, e che non giustificherebbe l’approvazione: non ancora, quantomeno. E hanno chiamato in causa l’uso sempre più pervasivo dei cosiddetti endpoint secondari, cioè di parametri indiretti di efficacia, considerati pericolose scorciatoie. In questo caso, dimostrare che l’anticorpo riduce le placche ( endpoint secondario) non significa, necessariamente che ci sia un effetto sulle performance cognitive ( scopo primario). Ma, al tempo stesso, dare un primo via libera significa concedere ai pazienti una chance.
Nei prossimi mesi si capirà qual è, in merito, la posizione di Ema e Aifa.
REAL LIFE
Nei prossimi 9 anni si capirà, su una platea di migliaia di pazienti, se l'ipotesi della beta amiloide è valida o meno