Il grido d’allarme dei titoli di Stato Usa: Fed e inflazione rischiano di congelare il Pil
Crollano le aspettative su prezzi e tassi a lunga Usa In Europa il ruolo del cambio
Dietro i freddi schermi dei trader e dietro i tanti computer delle sale operative, inizia a rimbombare forte un grido d’allarme che parte dagli Stati Uniti e rischia di farsi sentire fino all’Europa. Il timore è questo: l’incremento dell’inflazione ( in gran parte dovuto alle materie prime), unito alla più vicina ritirata degli stimoli monetari da parte della Fed, unito al collo di bottiglia nelle catene globali delle forniture, rischia di pesare sulla crescita economica futura. Per dirla in altri termini: proprio ora che il mondo occidentale celebra l’uscita dalla pandemia e il boom economico conseguente, i mercati iniziano a sentire più vicina una futura recessione.
A dirlo sono i grafici che si vedono sugli schermi dei trader: mentre la Fed alza le stime di inflazione nel breve termine, i mercati le abbassano con violenza nel lungo termine; e mentre la Fed annuncia un più vicino ( nel 2023) aumento dei tassi ufficiali, i mercati fanno cadere ai minimi da febbraio i rendimenti dei titoli di Stato trentennali. Mentre la Fed vede rosa nel breve termine, tanto da preparare il terreno alla riduzione degli stimoli, i mercati iniziano insomma a sentire puzza di bruciato. Non nel breve, ma nel lungo termine.
L’allarme negli Usa
Partiamo dai numeri. La cosiddetta breakeven inflation ( cioè l’inflazione media annua attesa negli Usa per i prossimi 10 anni) è scesa in maniera violenta tra mercoledì e ieri: a dispetto dell’aumento delle previsioni della Fed nel breve, le aspettative decennali di inflazione sono calate sui mercati dal 2,39% di pochi istanti prima del comunicato Fed di mercoledì sera fino al 2,21% di ieri sera. Il movimento parte da lontano ( il 12 maggio le stesse aspettative stavano a 2,59%), ma il brusco calo post- Fed è clamoroso. Anche perché va in contrasto con ciò che la banca centrale Usa ha detto mercoledì, quando ha aumentato le stime sull’inflazione del 2021 dal 2,4% ipotizzato a marzo al 3,4% attuale. Idem per le aspettative di inflazione in un orizzonte temporale trentennale, piombate dal 2,36% pre- Fed al 2,22% attuale. Minimo da aprile.
Questo ha stravolto il mercato dei titoli di Stato americani: i tassi a breve termine sono saliti ( perché seguono le indicazioni della banca centrale che ha anticipato il rialzo dei tassi al 2023), mentre i tassi a lunghissimo termine sono caduti a picco. Nel senso letterale del termine: il rendimento dei titoli di Stato trentennali sono scesi dal 2,18% pre- Fed al 2,06% di ieri sera, minimo da metà febbraio. Questo ha di conseguenza schiacciato la cosiddetta « curva dei rendimenti » ( cioè la differenza tra i tassi a breve e quelli a lunga): se prima della Fed tra i titoli di Stato Usa quinquennali e quelli trentennali c’erano 140 punti base di differenza, ora ce ne sono soltanto 118. Un movimento violentissimo in un mercato che solitamente si muove di qualche punticino al giorno.
Cosa significa questo? La lettura che arriva dagli operatori è chiara: il mercato inizia a temere che la più vicina ” stretta” della Fed, in un contesto di inflazione che sale principalmente a causa del rincaro delle materie prime, andrà ad azzoppare i consumi. Per dirla in altre parole: se i prezzi salgono per colpa del rincaro delle materie prime, ma i salari non si adeguano, gli americani compreranno meno beni e servizi. E se i consumi vengono colpiti, a farne le spese sarà la stessa ripresa economica. Dunque l’inflazione futura scenderà, e con essa i tassi a lungo termine. Anche nel sondaggio mensile che Bank of America conduce tra gli investitori globali è emerso già qualche giorno fa questo timore: il 25% dei gestori prevede la prossima recessione nel 2023, mentre il 26% nel 2024. Così ieri il mercato dei titoli di Stato Usa si è adeguato - con inusuale violenza - a questo scenario.
L’eco in Europa
Il problema può arrivare anche in Europa. È vero che da noi la Banca centrale resta ultra- accomodante ( Christine Lagarde l’ha ribadito settimana scorsa), anche perché l’Europa è ben lontana dai tassi di crescita statunitensi. Ma è anche vero che l’aumento dell’inflazione causata dalle materie prime colpisce anche noi. Anzi: se l’euro restasse debole in futuro, dato che le materie prime si comprano in dollari, l’inflazione importata potrebbe aumentare. Il condizionale è d’obbligo, perché proprio il dollaro forte dovrebbe indebolire i prezzi delle materie prime. Ma il rischio c’è: l’Europa rischia inflazione elevata ( e importata) prima che l’economia e i consumi ripartano davvero.
Anche perché l’Europa subisce, sia sotto il profilo dell’inflazione sia sotto quello della carenza di componenti essenziali per l’industria, il collo di bottiglia che ha congestionato le catene globali delle forniture. Lo conferma l’Ifo, importante istituto di ricerca tedesco, che in questi giorni ha abbassato le stime di crescita 2021 dell’economia in Germania ( dal 3,7% al 3,3%) proprio per questo motivo: per la congestione delle catene globali del valore. Così la “stretta” Fed, unita al rincaro delle materie prime, unita alla loro carenza su scala mondiale, rischia di portare anche in Europa a quel rallentamento economico che - per ora - viene gridato solo dai freddi schermi dei trader.