Il contributo del private equity alla ripartenza
Le sfide del dopo pandemia
In questi ultimi anni il settore del private equity ha subìto notevolissime evoluzioni e cambiamenti e l’attuale situazione di crisi ha ulteriormente accelerato questo processo. Anche a seguito delle drammatiche conseguenze della pandemia, il bisogno di capitale di rischio è più che evidente, specialmente in Italia. Ed è inoltre emerso come gli strumenti di investimento adottati finora dagli operatori del settore non sempre sono stati in grado di fornire una risposta efficace alle esigenze di aziende e investitori. Ecco quindi negli ultimi anni un fiorire di nuove strutture, anche nel nostro Paese: holding quotate o non quotate; fondi quotati; Spac; accordi strutturati di coinvestimento; club deal; investimenti diretti da parte di family office
( anche consorziati tra loro) e fondi sovrani, sempre più attivi e presenti e via elencando. Tanti nuovi strumenti per fare la stessa cosa: identificare aziende e imprenditori promettenti sui quali investire, aiutandoli nel loro percorso di sviluppo e valorizzazione nella speranza di realizzare un ritorno sull’investimento nei tempi e nei modi che, di volta in volta, saranno ritenuti i più opportuni, condividendo tali guadagni ( solo se presenti) tra gestori e investitori. È questa l’essenza dell’attività di private equity.
Ma quali saranno i filoni principali sui quali si svilupperanno i nuovi “prodotti”? Presumibilmente quelli che andranno a risolvere alcune delle problematiche tipiche di questo tipo di investimento, anche tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie.
Un primo tema è quello dell’elevata illiquidità che tipicamente caratterizza questo genere di investimenti e che ha già portato e porterà sempre di più all’utilizzo di nuovi strumenti, vedi ad esempio le Spac, i fondi ( e le holding) quotati e altri schemi di intervento adatti anche a investitori meno pazienti e di dimensioni minori. Dal punto di vista delle società partecipate, quasi sempre non quotate, uno dei limiti principali al ricorso al private equity è invece connesso alla scadenza alla quale sono normalmente assoggettati i fondi chiusi. Per superare tale limite si sono quindi sviluppati nuovi strumenti, come i
club deal o i veicoli di permanent capital, che si stanno diffondendo in modo molto veloce e significativo. Per gli investimenti di minoranza, dove il rischio principale è quello di non potere concretamente uscire dall’investimento, è inoltre prevedibile una graduale sostituzione dello strumento azionario con strumenti di debito ibrido, spesso più efficaci e adatti a risolvere questo problema. Infine, anche family office e fondi sovrani aumenteranno la loro presenza, investendo spesso direttamente, mentre i pledge fund e gli accordi di co- investimento consentiranno una maggiore libertà di scelta agli investitori, altro elemento sempre più richiesto e ricercato.
Sul fronte del fundraising, mai come in questo momento si è registrata una così abbondante liquidità e ricerca di rendimenti, con particolare attenzione agli investimenti nell’economia reale. E anche per il
venture capital potrebbe finalmente essere giunto il momento del balzo. Una grande massa di denaro a cui si aggiungeranno le imponenti risorse che arriveranno dal Recovery Plan. Dalle modalità che verranno scelte per effettuare gli interventi pubblici dipenderanno il futuro della nostra economia e mercato, e il successo, o meno, di tali interventi. Si auspica che, in questo scenario, gli interventi siano sempre informati a una logica di sinergica collaborazione tra pubblico e privato, più che a operazioni “dirette”. Una così marcata evoluzione, andrà però monitorata e regolamentata, in quanto il maggiore distacco che si verrà a creare tra fornitori di capitali e investitori potrebbe portare a rischiosità significative. Ricordiamoci che investire in private equity significa investire prevalentemente in società non quotate, tramite una negoziazione privata e quindi in assenza di trasparenza a livello di prezzo e di condizioni. Ed è questa la vera sfida che l’industria del
private equity e i regolatori dovranno affrontare. Tuttavia, se tutte le parti coinvolte, operatori, associazioni di categoria e regolatori in
primis, agiranno in buona fede, parlandosi, rispettandosi, ascoltandosi e mettendo professionalità, competenza e trasparenza in primo piano, sarà possibile trovare la soluzione migliore e il
private equity, in tutte le sue nuove articolazioni, sarà più che pronto per affrontare una nuova era di sviluppo e crescita, capitalizzando al meglio sulle esperienze passate e creando le condizioni basilari per liberare il suo enorme potenziale a supporto della crescita economica e sociale. È un’occasione unica per il rilancio del nostro Paese: non possiamo sbagliare.