Commercio e turismo al rinnovo dei contratti
In due anni l’industria ha firmato 27 contratti per 4,2 milioni di lavoratori
Nel lavoro dipendente che c’è e in quello che verrà creato, si è aperta una nuova questione salariale, trascinata anche dal conflitto in Ucraina, dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dallo shock energetico, mentre sullo sfondo ci sono 2 dati che destano qualche preoccupazione e cioè il livello dell’inflazione e l’arretramento del Pil, registrati dagli ultimi dati Istat. È con questo contesto che fanno i conti i settori che devono rinnovare i contratti collettivi nazionali di lavoro. Ad affrontare la partita più importante sono il commercio, il turismo e i servizi, dove ci sono circa quattro milioni e mezzo di lavoratori con il contratto scaduto, secondo quanto si può ricavare dalle tavole Istat. Le piattaforme sindacali di Filcams, Fisascat e Uiltucs per i 4 contratti del commercio ( Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti e Coop), tutti scaduti a fine 2019, e per gli 8 del turismo sono state presentate. Fatti i primi incontri, il dialogo va avanti in maniera molto dilazionata: i pesanti lasciti della fase pandemica e la forte incertezza non aiutano il percorso di rinnovo. Nel terziario vanno citate almeno altre 2 trattative che riguardano contratti scaduti ormai da qualche anno. Il primo è quello dei bancari del credito cooperativo, dove Federcasse e i sindacati non sono ancora arrivati a una sintesi, mentre a fine 2022 arriva a scadenza il contratto Abi, avanti quasi di una tornata rispetto a Federcasse. Il secondo è quello dei 45mila assicurativi dipendenti delle compagnie ( la filiera ne conta quasi 300mila), scaduto a fine 2019. Il negoziato è appena partito con i sindacati che hanno chiesto tempi rapidi ad Ania, spiegando che con l’inflazione che cresce a questi ritmi, già in autunno l’aumento medio di 210 euro sulle tabelle stipendiali ( pari a un incremento del 10%) non basterà più.
Nella galassia Confindustria che ha una sessantina di contratti, negli ultimi 24 mesi ne sono stati rinnovati 27 che riguardano 4,2 milioni di lavoratori. Dai meccanici fino ad arrivare a tutta la filiera del tessile, passando per il multiservizi, dove il negoziato si è trascinato per molti anni, il legno, l’edilizia e il cemento ( gli ultimi siglati) la contrattazione ha dato risposte anche nei mesi più duri della pandemia. E poi ci sono i 700mila addetti con il contratto da rinnovare e quelli dei settori che stanno arrivando a scadenza nella seconda metà dell’anno, tra cui la gomma plastica e la chimica farmaceutica. Quest’ultimo ha una sua specificità, essendo un contratto caratterizzato da un negoziato continuo tra le parti ( Federchimica, Farmindustria e Filctem, Femca e Uiltec) nell’intervallo tra un rinnovo e l’altro, che ha sempre consentito di rinnovare il contratto a scadenza, se non prima. Con lo shock energetico, su questo rinnovo incombe però un Ipca su cui c’è una certa pressione: l’indicatore usato per l’aumento economico è al netto dei beni energetici importati che sono alla base della maggior parte dell’inflazione. Tra maggio e giugno sono attesi dall’Istat 5 dati e cioè la previsione dell’anno corrente, la previsione dei 3 anni successivi, quindi 2023, 2024, 2025, e poi il consuntivo del 2021, per verificare gli scostamenti. Solo per dare la dimensione della forbice, tra inflazione e salari, l’ultimo dato Istat parla di un’inflazione acquisita per il 2022 del 5,3% e di una dinamica delle retribuzioni contrattuali acquisita dello 0,8%. Nei giorni scorsi si è acceso un dibattito molto forte, con la richiesta di Confindustria di mettere mano al taglio del cuneo fiscale perché altri spazi per gli aumenti dei salari non ci sono in questo momento.
La questione salariale che si auspica sia contingente, nasce in una situazione generale storicamente ben più complessa perché, come ci raccontano i numeri del Cnel, non esistono solo i contrattoni e chi rinnova i contratti con elevato grado di rappresentatività sia sul fronte datoriale che sindacale, dentro regole condivise e rivendicabili. Esiste anche il dumping contrattuale, e quindi quello salariale, che è la questione delle questioni. Il codice unico nazionale dei contratti assegnato dal Cnel aiuterà, ma su questo tema la contrattazione “regolare” ha avviato una serie di azioni definite negli stessi accordi e a livello paese. Ne sono esempi nell’edilizia la Durc di congruità per i bonus e l’ultimo contratto Ance e Coop e poi tutti i grandi contratti della moda.
Qualche numero aiuta a capire di cosa parliamo. Dal Cnel spiegano che negli ultimi dieci anni i contratti collettivi nazionali sono cresciuti in modo anomalo e oggi sono 933, il 9% in più del 2020. Va però detto che i primi 54 contratti coprono il 75% dei lavoratori. Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, osserva che c’è una questione strutturale nella contrattazione, perché « abbiamo un numero assurdo di contratti nazionali. È preoccupante perché i contratti al ribasso ci sono e aumentano: in un regime privatistico anche piccoli gruppi di imprese si fanno il loro contratto. Nasce così il fenomeno dei contratti pirata dove dobbiamo fare dei distinguo. In alcuni settori i contratti delle maggiori organizzazioni coprono quote assolutamente maggioritarie degli addetti e non ci sono problemi gravi di contrattazione al ribasso, ma nei settori più fragili, come logistica, sanità privata o multiservizi c’è una giungla di contratti e sottosalari » . Come se ne esce? Per Treu « la via maestra sarebbe una legge sui criteri di rappresentatività, per dare forza ai contratti rappresentativi. L’art. 39 della nostra Costituzione impedisce di fare un erga omnes generale, però si potrebbe percorrere la via dell’erga omnes salariale » .
‘ Dagli assicurativi alla distribuzione, ci sono circa quattro milioni e mezzo di lavoratori con il contratto scaduto