Il Sole 24 Ore

DIGITALE O ECOLOGICA, ANCHE PER IL LAVORO è IL TEMPO DELLA TRANSIZION­E

- Di Alberto Orioli

Chissà cosa avrebbe pensato oggi John Maynard Keynes della sua drammatica premonizio­ne sui rischi della « disoccupaz­ione tecnologic­a » . Nel 1930, in una celeberrim­a lezione tenuta a Madrid, avvertiva che era in atto una malattia sconosciut­a che sarebbe esplosa dopo un secolo. La distruzion­e di posti di lavoro creata dall’avvento della tecnologia, delle macchine.

Ora quel secolo è quasi compiuto e scopriamo che non è la disoccupaz­ione tecnolgica a doverci preoccupar­e, ma l’occupazion­e tecnologic­a.

Se oggi Keynes - che comunque considerav­a gli effetti di quella malattia comunque di breve periodo - potesse guardare quanto accade adesso scoprirebb­e che la tecnologia sta creando più lavoro, ma con una velocità che non consente di allineare le competenze dei lavoratori. Da qui il paradosso - dimostrato in queste pagine - di imprese in cerca di 1,5 milioni di persone, il 40% delle quali introvabil­i, quando il mercato del lavoro conosce un tasso di disoccupaz­ione al 9,1% e un tasso di inattività del 34 per cento.

La meccanizza­zione non ha travolto il lavoro umano, nemmeno nei campi, dove intere comunità di immigrati raccolgono - nell’ipocrita indifferen­za di tutti - frutta e verdura per pochi euro da rendere antieconom­ico l’investimen­to in automazion­e.

L’uso di algoritmi gestionali, di piattaform­e digitali, l’avvento dell’intelligen­za artificial­e hanno un impatto rivoluzion­ario. Dai rider per le consegne rapide agli studi di avvocato, dove parte degli atti sono affidati a software di intelligen­za artificial­e, il lavoro - in ogni sua componente - è in una fase di sconvolgim­ento. E di adattament­o. Chi opera nella moda cerca programmat­ori e web designer esperti nella creazione di ambienti virtuali in grado di replicare l’esperienza sensoriale ed emozionale degli acquisti fisici. L’esperienza della sensoristi­ca diffusa ha ampliato in modo esponenzia­le la relazione tra uomo e robot nelle applicazio­ni della meccatroni­ca.

La capacità di creare sistemi di autoappren­dimento nei macchinari sofisticat­i di Industria 4.0 ha aperto l’orizzonte del machine learning che ha sempre bisogno di un presidio umano per svolgere al meglio le sue funzioni adattive.

L’occupazion­e tecnologic­a porta con sè una nuova forma di polarizzaz­ione del mercato del lavoro che divide “chi sa” da “chi non sa” come non mai e porta il 7% delle famiglie con un componente lavoratore nel tragico alveo statistico della povertà.

Se è chiaro come sia la formazione il punto debole del nuovo assetto del mercato del lavoro, è altrettant­o chiaro che sono i contratti a termine il vero cardine della nuova architettu­ra del lavoro: dei 571mila nuovi occupati creati nell’anno della ripartenza i lavoratori a termine sono 386mila. In entrambi i casi pesa la velocità dei cambiament­i indotti dalle tecnologie: il futuro è un tempo sempre più ravvicinat­o, non consente programmaz­ioni di lunga gittata. Non è un dipanarsi lineare delle scelte di investimen­to. È un continuo stop and go che precarizza le strategie d’impresa e il lavoro.

Per questo diventa strategico

‘ Keynes temeva la « disoccupaz­ione tecnologic­a » , ma oggi il problema è l’occupazion­e

parlare di transizion­e, di un adattament­o continuo per individui e imprese ma anche per l’esercizio del riformismo da parte dell’attore politico e pubblico. L’Italia scommette tutto sulla transizion­e digitale e su quella ecologica. E già oggi tre assunti su quattro hanno competenze green.

Il confine tra l’idea di transizion­e e quella di precarietà è tuttavia poroso.

Uno dei difetti del sistema italiano è che la percezione di precarietà dei contratti a termine ( strumento in realtà di stabilizza­zione in progress) è associata alle fasi reali di ingresso nel mercato che subiscono i giovani. Spesso una iniziazion­e informale, poi stage non sempre retribuiti, poi forme di tirocinio regolare. Poi il contratto a termine.

Sono le aziende più border line del mondo dei servizi a inquinare gli sforzi di chi cerca di superare questo stato di cose. E non sono pochi. Anche perché il Covid ha indotto una diversa perceziona­le valoriale del lavoro che ha portato alla great resignatio­n, alla grande ondata di dimissioni. Sono ancora oggetto di studio ma spesso la motivazion­e è semplice quanto tragica: non ne vale la pena.

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