DIGITALE O ECOLOGICA, ANCHE PER IL LAVORO è IL TEMPO DELLA TRANSIZIONE
Chissà cosa avrebbe pensato oggi John Maynard Keynes della sua drammatica premonizione sui rischi della « disoccupazione tecnologica » . Nel 1930, in una celeberrima lezione tenuta a Madrid, avvertiva che era in atto una malattia sconosciuta che sarebbe esplosa dopo un secolo. La distruzione di posti di lavoro creata dall’avvento della tecnologia, delle macchine.
Ora quel secolo è quasi compiuto e scopriamo che non è la disoccupazione tecnolgica a doverci preoccupare, ma l’occupazione tecnologica.
Se oggi Keynes - che comunque considerava gli effetti di quella malattia comunque di breve periodo - potesse guardare quanto accade adesso scoprirebbe che la tecnologia sta creando più lavoro, ma con una velocità che non consente di allineare le competenze dei lavoratori. Da qui il paradosso - dimostrato in queste pagine - di imprese in cerca di 1,5 milioni di persone, il 40% delle quali introvabili, quando il mercato del lavoro conosce un tasso di disoccupazione al 9,1% e un tasso di inattività del 34 per cento.
La meccanizzazione non ha travolto il lavoro umano, nemmeno nei campi, dove intere comunità di immigrati raccolgono - nell’ipocrita indifferenza di tutti - frutta e verdura per pochi euro da rendere antieconomico l’investimento in automazione.
L’uso di algoritmi gestionali, di piattaforme digitali, l’avvento dell’intelligenza artificiale hanno un impatto rivoluzionario. Dai rider per le consegne rapide agli studi di avvocato, dove parte degli atti sono affidati a software di intelligenza artificiale, il lavoro - in ogni sua componente - è in una fase di sconvolgimento. E di adattamento. Chi opera nella moda cerca programmatori e web designer esperti nella creazione di ambienti virtuali in grado di replicare l’esperienza sensoriale ed emozionale degli acquisti fisici. L’esperienza della sensoristica diffusa ha ampliato in modo esponenziale la relazione tra uomo e robot nelle applicazioni della meccatronica.
La capacità di creare sistemi di autoapprendimento nei macchinari sofisticati di Industria 4.0 ha aperto l’orizzonte del machine learning che ha sempre bisogno di un presidio umano per svolgere al meglio le sue funzioni adattive.
L’occupazione tecnologica porta con sè una nuova forma di polarizzazione del mercato del lavoro che divide “chi sa” da “chi non sa” come non mai e porta il 7% delle famiglie con un componente lavoratore nel tragico alveo statistico della povertà.
Se è chiaro come sia la formazione il punto debole del nuovo assetto del mercato del lavoro, è altrettanto chiaro che sono i contratti a termine il vero cardine della nuova architettura del lavoro: dei 571mila nuovi occupati creati nell’anno della ripartenza i lavoratori a termine sono 386mila. In entrambi i casi pesa la velocità dei cambiamenti indotti dalle tecnologie: il futuro è un tempo sempre più ravvicinato, non consente programmazioni di lunga gittata. Non è un dipanarsi lineare delle scelte di investimento. È un continuo stop and go che precarizza le strategie d’impresa e il lavoro.
Per questo diventa strategico
‘ Keynes temeva la « disoccupazione tecnologica » , ma oggi il problema è l’occupazione
parlare di transizione, di un adattamento continuo per individui e imprese ma anche per l’esercizio del riformismo da parte dell’attore politico e pubblico. L’Italia scommette tutto sulla transizione digitale e su quella ecologica. E già oggi tre assunti su quattro hanno competenze green.
Il confine tra l’idea di transizione e quella di precarietà è tuttavia poroso.
Uno dei difetti del sistema italiano è che la percezione di precarietà dei contratti a termine ( strumento in realtà di stabilizzazione in progress) è associata alle fasi reali di ingresso nel mercato che subiscono i giovani. Spesso una iniziazione informale, poi stage non sempre retribuiti, poi forme di tirocinio regolare. Poi il contratto a termine.
Sono le aziende più border line del mondo dei servizi a inquinare gli sforzi di chi cerca di superare questo stato di cose. E non sono pochi. Anche perché il Covid ha indotto una diversa percezionale valoriale del lavoro che ha portato alla great resignation, alla grande ondata di dimissioni. Sono ancora oggetto di studio ma spesso la motivazione è semplice quanto tragica: non ne vale la pena.