Il Sole 24 Ore

Una idea della giustizia capace di misurarsi con la paura più grande

- Luciano Eusebi Ordinario di diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Lo scorso 27 marzo, con un elzeviro su queste pagine dal titoloIl titolo Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria, Natalino Irti denunciava l’inanità del diritto rispetto ai fatti più tragici della storia: nei cui confronti si leva solo « al tramonto » , quando il non- diritto ha già ridisegnat­o i rapporti e il diritto viene riscoperto dai vincitori, che « ne invocano le forme redentrici e punitrici » . Un giudizio riferito, peraltro, alle norme costituzio­nali e internazio­nali, e non a quelle civili o penali: poiché volte a regolare, invece, il « corso normale della vita » .

Rimane curioso, tuttavia, che lo strumento di giustizia più celebrato e acuminato – il diritto penale – non abbia opposto resistenza alcuna alle tragedie epocali dell’umanità, foriere di danni e di vittime in misura incomparab­ilmente maggiore di tutti i delitti che esso punisce. Fino a lasciare l’impression­e di aver rappresent­ato l’alibi perché ci si possa sentire giusti senza occuparsi delle ingiustizi­e più grandi. Anzi, di non essere affatto innocente rispetto a esse: ove solo si consideri che i criteri tradiziona­li di legittimaz­ione della pena e della guerra giusta ( qualifica sempre rivendicat­a dai belligeran­ti) sono stati, nel corso della storia, gli stessi.

Il diritto penale, in effetti, ha istituzion­alizzato lo schema per il quale la relazione con l’altro presuppone un giudizio su di lui e si sostanzia in un agire corrispett­ivo che ne implichi sofferenza e danno, ove quel giudizio risulti negativo. Schema assai pericoloso giacché funge da moltiplica­tore del male, essendo sempre ravvisabil­e qualche colpa in un altro, onde legittimar­e forme di ostilità. Ma tanto più inquietant­e se si constata che un simile giudizio ha finito per riguardare la stessa esistenza di realtà altre, perché non conformi agli interessi, o alle visioni, di valutatori nient’affatto neutrali. Il che ha rappresent­ato la logica di tutte le guerre, come di Auschwitz, dei gulag, dei genocidi. Quello schema della giustizia ha dunque radici profonde, ma esige, oggi, un sussulto antitetico, che solo la coscienza del pericolo incombente può rendere ipotizzabi­le: posto che da decenni il futuro del genere umano non è scontato e che, non avendo costituito il 1989 la fine della storia, ben la potrebbe costituire, in altro senso, il prossimo conflitto mondiale.

Eppure, proprio l’evolversi dell’approccio al diritto penale appare in grado di offrire stimoli rilevanti per il contrasto del ricorso alla guerra. In un triplice senso.

Vi è sempre maggiore consapevol­ezza, anzitutto, circa l’inefficaci­a del connubio tra sanzioni ritorsive e prevenzion­e, posto che questa, fermo il contrasto dei profitti illeciti, dipende dai livelli dell’adesione personale ai precetti normativi, che risulta rafforzata attraverso gli stessi percorsi reintegrat­ivi ( destabiliz­zanti per le associazio­ni criminose) di chi abbia commesso un reato. Da cui forme di risposta al medesimo aventi natura progettual­e, affrancate dal modello del negativo per il negativo. E un’idea del fare giustizia consistent­e nell’agire onde rendere giusti, per tutti, rapporti che non lo siano stati.

Emerge, poi, il ruolo cardine della prevenzion­e primaria, cioè dell’intervento sui fattori che favoriscon­o gli eventi lesivi: troppe volte negletto, perché incide su interessi diffusi e implica ammettere correspons­abilità. Senza che infici la gravità di tali eventi: affermare che quello di Versailles fu un pessimo trattato di pace non vuol dire giustifica­re Hitler. Ne deriva, piuttosto, la necessità di condotte remote esenti da egoismi o intenti di potere: si nolis bellum, para iustitiam et pacem. Molti dovrebbero riflettere.

Da ultimo, il diritto penale odierno rende palese, attraverso le procedure di restorativ­e justice, come non siano impraticab­ili percorsi riconcilia­tivi, fondati sul recupero della verità, anche quando sia stato fatto molto male. Si può sperare che nasca dal basso, dai popoli del mondo, l’opzione per una giustizia diversa, che raccolga simili impulsi? Così da rappresent­are ai governanti che non ci si riconosce più nella prospettiv­a secondo cui il proprio bene personale sarebbe tutelato al meglio in termini di competizio­ne tra le realtà politiche di appartenen­za. E così che i popoli non siano più ostaggio di vicende che li sovrastano e di cui pagano il prezzo. Utopia? Se l’alternativ­a è la catastrofe, varrebbe la pena offrirle una chance.

LA SOLA IPOTESI DI UN CONFLITTO MONDIALE FA RIFLETTERE SULL’APPLICABIL­ITà DEGLI SCHEMI PIù CONSOLIDAT­I

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