Crisi di attrattività: quasi un lavoratore su due vuole cambiare azienda
La survey. Per l’Osservatorio hr practice del Polimi il 39% delle imprese tradizionali non attira i candidati e il 91% di lavoratori dà segnali di malessere
In un mercato del lavoro così rigido come quello italiano, il fenomeno delle dimissioni volontarie va letto con molta attenzione e sarebbe sbagliato sottovalutarlo, perché « per una persona che si convince a cambiare lavoro, ce ne sono altre 9 che vorrebbero farlo. Emerge fortissimo il desiderio di cambiamento e, se questo non si vede nella sua reale dimensione attraverso i numeri delle dimissioni volontarie, semplicemente è perché il mercato del lavoro italiano è rigido. Il significato, però, è ancora più grave perché vuol dire che in molti lavoratori è caduto il livello di engagement, producono di meno e l’azienda deve però pagarli ugualmente » . Questo quadro che ci sintetizza il professor Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, è tratteggiato dai numeri di una ricerca che ha coinvolto 195 aziende e mille lavoratori e sarà presentata il 12 maggio.
Negli ultimi 12 mesi, per il 69% delle organizzazioni è aumentato il tasso di turnover, nella maggioranza dei casi di alcune categorie specifiche, le
gate al digitale. Su questa variazione hanno pesato le dimissioni volontarie ( 87%), i pre- pensionamenti e i pensionamenti ( 36%), incentivati anche per favorire il ricambio generazionale. « Il fenomeno delle grandi dimissioni ha un suo spazio anche in Italia, dove però non ha assunto le dimensioni registrate oltreoceano » , osserva Corso. Con la ripresa economica e il graduale aumento delle assunzioni, le direzioni HR sono tornate a concentrarsi sull’employer branding, sull’attraction e sulla retention, scoprendo però un mercato del lavoro diverso, mutato dalla pandemia. Il 39% delle organizzazioni dice che la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita. In parte per il tema del disallineamento di domanda e offerta nel mercato del lavoro, in parte però perché le organizzazioni tradizionali faticano ad essere percepite attrattive agli occhi dei profili più richiesti, con competenze tecniche, digitali e tecnologiche.
Di fronte a questo disequilibrio è fondamentale « che le direzioni hr abbiano gli strumenti per la lettura dei dati e per supportare il ripensamento organizzativo. Non c’è continuità con il passato, siamo in una fase dinamica dove bisogna essere in grado di prendere misure in fretta per rispondere alle mutate esigenze. Le piattaforme tecnologiche sono di grande aiuto » , dice Corso. Oltre la metà delle aziende ( 55%) parla di un aumento degli investimenti in iniziative digitali a supporto, mentre per il 38% rimarranno invariati. Parla di calo il 7%.
Nella ricerca dell’Osservatorio quasi un lavoratore su due ( 45%) dichiara di aver cambiato posto nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. « C’è disequilibrio tra quanto desiderato dalle persone e quanto offerto dalle organizzazioni » , interpreta Corso. I numeri crescono per gli under 30, per determinati settori , come Ict, servizi e finance e per alcuni profili, come le professionalità digitali. Tra le persone che hanno cambiato lavoro nell’ultimo anno, 4 su 10 dicono di averlo fatto senza avere un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni. Viene da chiedersi: perché? Innanzitutto per la ricerca di migliori condizioni di lavoro, a partire dalla retribuzione e dai benefit economici, come dice il 46% dei lavoratori, ma anche dalle opportunità di crescita e carriera, secondo il 35%. « Con l’arrivo della pandemia il mercato del lavoro ha vissuto mesi di completo congelamento con il crollo delle assunzioni e il blocco dei licenziamenti - osserva Corso -. Oggi però con la ripresa economica lo scenario è cambiato » . Altre ragioni per cambiare lavoro sono la ricerca del benessere psico- fisico, come dice il 24% dei lavoratori, l’inseguimento delle proprie passioni nel 18% dei casi, la flessibilità sempre per il 18%, la sede di lavoro per il 17%.
La ricerca di un migliore stato di salute fisica e mentale rientra quindi tra le principali ragioni di abbandono del lavoro: soltanto il 9% dei lavoratori dichiara di “stare bene” su tutte e tre le dimensioni del benessere: fisica, sociale e psicologica. Questo vuol dire che il 91% ha un malessere di fondo che si accompagna a una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente ingaggiati passano da un già basso 20% al 14%. « C’è un forte calo dell’energia che le persone portano al lavoro - avverte Corso -. Il quadro che ne emerge è quello di persone stanche, che faticano a conciliare gli alti ritmi di lavoro con la vita privata e che sono spesso inserite in ambienti di lavoro dove non stanno bene » .