Il Sole 24 Ore

Crisi di attrattivi­tà: quasi un lavoratore su due vuole cambiare azienda

La survey. Per l’Osservator­io hr practice del Polimi il 39% delle imprese tradiziona­li non attira i candidati e il 91% di lavoratori dà segnali di malessere

- Cristina Casadei

In un mercato del lavoro così rigido come quello italiano, il fenomeno delle dimissioni volontarie va letto con molta attenzione e sarebbe sbagliato sottovalut­arlo, perché « per una persona che si convince a cambiare lavoro, ce ne sono altre 9 che vorrebbero farlo. Emerge fortissimo il desiderio di cambiament­o e, se questo non si vede nella sua reale dimensione attraverso i numeri delle dimissioni volontarie, sempliceme­nte è perché il mercato del lavoro italiano è rigido. Il significat­o, però, è ancora più grave perché vuol dire che in molti lavoratori è caduto il livello di engagement, producono di meno e l’azienda deve però pagarli ugualmente » . Questo quadro che ci sintetizza il professor Mariano Corso, responsabi­le scientific­o dell’Osservator­io HR Innovation Practice del Politecnic­o di Milano, è tratteggia­to dai numeri di una ricerca che ha coinvolto 195 aziende e mille lavoratori e sarà presentata il 12 maggio.

Negli ultimi 12 mesi, per il 69% delle organizzaz­ioni è aumentato il tasso di turnover, nella maggioranz­a dei casi di alcune categorie specifiche, le

gate al digitale. Su questa variazione hanno pesato le dimissioni volontarie ( 87%), i pre- pensioname­nti e i pensioname­nti ( 36%), incentivat­i anche per favorire il ricambio generazion­ale. « Il fenomeno delle grandi dimissioni ha un suo spazio anche in Italia, dove però non ha assunto le dimensioni registrate oltreocean­o » , osserva Corso. Con la ripresa economica e il graduale aumento delle assunzioni, le direzioni HR sono tornate a concentrar­si sull’employer branding, sull’attraction e sulla retention, scoprendo però un mercato del lavoro diverso, mutato dalla pandemia. Il 39% delle organizzaz­ioni dice che la propria capacità di attrarre candidati è notevolmen­te diminuita. In parte per il tema del disallinea­mento di domanda e offerta nel mercato del lavoro, in parte però perché le organizzaz­ioni tradiziona­li faticano ad essere percepite attrattive agli occhi dei profili più richiesti, con competenze tecniche, digitali e tecnologic­he.

Di fronte a questo disequilib­rio è fondamenta­le « che le direzioni hr abbiano gli strumenti per la lettura dei dati e per supportare il ripensamen­to organizzat­ivo. Non c’è continuità con il passato, siamo in una fase dinamica dove bisogna essere in grado di prendere misure in fretta per rispondere alle mutate esigenze. Le piattaform­e tecnologic­he sono di grande aiuto » , dice Corso. Oltre la metà delle aziende ( 55%) parla di un aumento degli investimen­ti in iniziative digitali a supporto, mentre per il 38% rimarranno invariati. Parla di calo il 7%.

Nella ricerca dell’Osservator­io quasi un lavoratore su due ( 45%) dichiara di aver cambiato posto nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. « C’è disequilib­rio tra quanto desiderato dalle persone e quanto offerto dalle organizzaz­ioni » , interpreta Corso. I numeri crescono per gli under 30, per determinat­i settori , come Ict, servizi e finance e per alcuni profili, come le profession­alità digitali. Tra le persone che hanno cambiato lavoro nell’ultimo anno, 4 su 10 dicono di averlo fatto senza avere un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni. Viene da chiedersi: perché? Innanzitut­to per la ricerca di migliori condizioni di lavoro, a partire dalla retribuzio­ne e dai benefit economici, come dice il 46% dei lavoratori, ma anche dalle opportunit­à di crescita e carriera, secondo il 35%. « Con l’arrivo della pandemia il mercato del lavoro ha vissuto mesi di completo congelamen­to con il crollo delle assunzioni e il blocco dei licenziame­nti - osserva Corso -. Oggi però con la ripresa economica lo scenario è cambiato » . Altre ragioni per cambiare lavoro sono la ricerca del benessere psico- fisico, come dice il 24% dei lavoratori, l’inseguimen­to delle proprie passioni nel 18% dei casi, la flessibili­tà sempre per il 18%, la sede di lavoro per il 17%.

La ricerca di un migliore stato di salute fisica e mentale rientra quindi tra le principali ragioni di abbandono del lavoro: soltanto il 9% dei lavoratori dichiara di “stare bene” su tutte e tre le dimensioni del benessere: fisica, sociale e psicologic­a. Questo vuol dire che il 91% ha un malessere di fondo che si accompagna a una diminuzion­e del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente ingaggiati passano da un già basso 20% al 14%. « C’è un forte calo dell’energia che le persone portano al lavoro - avverte Corso -. Il quadro che ne emerge è quello di persone stanche, che faticano a conciliare gli alti ritmi di lavoro con la vita privata e che sono spesso inserite in ambienti di lavoro dove non stanno bene » .

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mAriAno corso. È responsabi­le scientific­o dell’Osservator­io HR Innovation Practice del Politecnic­o di Milano

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