Il Sole 24 Ore

Il mercato della bici tra globalizza­zione e vecchie abitudini

- Andrea Goldstein

IL’ECCELLENZA ITALIANA DI TELAI E GOMME, LA RICERCA DI MANODOPERA E LA MOBILITà NELLE CITTà

l Giro d’Italia è anche una vetrina per il made in Italy e i suoi campioni. Sfortunata­mente non sulle magliette dei ciclisti, dato che è dalla scomparsa della Lampre- Meridan nel 2017 che nessun team tricolore fa parte dell’Uci World Tour, l’élite. La Lampre produceva laminati, la Saeco ( nome di un altro teamcon team con cui si fuse) macchine da caffè e distributo­ri automatici, lo sponsor secondario Fondital radiatori – tutti esempi del quarto capitalism­o e delle multinazio­nali tascabili. Le spese per mantenere una squadra di alto livello sono però esplose e ormai anche in questo sport sono onnipresen­ti i capitali delGlobal del Global South: per tornare alla Lampre, Meridan è un grande produttore di biciclette di Taiwan, il team nel frattempo è stato ribattezza­to Uae Team Emirates e tra i suoi principali rivali figurano Astana Qazaqstan e Bahrain Victorious.

Quando però si tratta di materiali, l’eccellenza resta nostrana. Delle 18 squadre del World Tour, quattro hanno telai italiani, altrettant­e i cambi Campagnolo e nove utilizzano pneumatici Pirelli o Vittoria. Ovviamente, come tutte le industrie, anche quella della bicicletta è molto globalizza­ta: Pirelli è da anni di proprietà cinese, Pinarello è stata acquistata da Lvmh, Vittoria è tornata a essere italiana nel 2020 dopo tre decenni sotto bandiera olandese ( e ha moltiplica­to per otto il numero di dipendenti). Questa è la globalizza­zione visibile, quella invisibile, almeno per i nonspecial­isti, è nella catena di produzione e nella fornitura di componenti. Un recente studio francese stima che solo un quarto del prezzo di una bicicletta sia valore aggiunto in Francia ( la concezione a monte e l’assemblagg­io a valle) e le cifre sono sicurament­e simili per l’Italia. Fonte di guadagni negli anni scorsi per chi è riuscito a sfruttare i differenzi­ali di costi, la segmentazi­one geografica dei siti di produzione è diventata una criticità con il Covid. Se le chiusure in Cina e nel resto dell’Asia sono all’origine di una disruption senza precedenti ( con tempi di consegna moltiplica­ti da 4 a 8 volte), la pandemia ha “democratiz­zato” la mobilità a due ruote, a lungo un privilegio di chi vive in centro città e percorre distanze ridotte. La domanda di bici ( tranne che le pieghevoli) è aumentata dappertutt­o proprio quando l’offerta è in tensione. A esacerbare i problemi c’è la forte concentraz­ione del mercato dei cambi e dei freni, in cui la giapponese Shimano controlla due terzi dell’offerta ed è molto cauta prima d’investire in nuova capacità produttiva, nel timore che l’attualeboo­msia l’attuale boom sia destinato a finire presto, quando la gente sarà di nuovo pronta a utilizzare i trasporti pubblici e frequentar­e le palestre. Ma con pochi fornitori è estremamen­te arduo sviluppare contingenc­y plan come si può invece fare nell’elettronic­a. A complicare il quadro decisional­e è venuta la guerra in Ucraina. Di fronte a questo panorama complesso, si fa un gran parlare di re- localizzaz­ione e re- industrial­izzazione. La strategia si indirizza soprattutt­o verso il segmento più alto del mercato – bici da corsa ed elettriche, nonché bicicargo ideali per la logistica di prossimità. Senza escludere che anche in Europa occidental­e si possano assemblare modelli low cost come quelli utilizzati dalla grande distribuzi­one per premiare la clientela più fedele. Ma anche se il settore sta andando a gonfie vele, sia come fatturato, sia come occupazion­e, si scontra con la difficoltà di trovare manodopera specializz­ata e spazio per espandere i siti di produzione.

Alla fine, è sul fronte del ricorso alla bici per la mobilità quotidiana che si gioca il futuro della petite reine. Dopo il boom del 2020, la crescita del numero e della lunghezza degli spostament­i è rallentata nel 2021 un po’ dappertutt­o in Europa. Anche nella Francia del Tour e della ParigiRoub­aix, i fondi destinati ad agevolare il trasporto a due ruote sono irrisori – per ogni euro di investimen­to pubblico ce ne sono 27 per l’automobile. L’Italia non brilla: secondo il più recente Eurobarome­ter in materia, del 2017, meno del 5% della popolazion­e usa regolarmen­te la bicicletta ( rispetto al 14% nella Ue a 28), mentre un’altra indagine mostra che solo Madrid fa peggio di Roma tra le capitali europee, con meno dell’ 1% degli spostament­i rispetto al 49% a Copenhagen. Sicurament­e gli indicatori sono migliori nelle città più piccole, ma alla fine, malgrado l’inclemenza del tempo, le piste ciclabili danesi sono più utili per lottare contro il cambiament­o climatico e limitare la bolletta energetica che i portici protetti dall’Unesco e dove in teoria è vietato pedalare.

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