Il Sole 24 Ore

I leader del futuro dovranno coniugare umiltà e ambizione

- Giuseppe Stigliano Ceo, Spring Studios

IIL MONDO CAMBIA A UNA VELOCITà TALE DA RENDERE INCOMPLETE LE COMPETENZE DI MOLTI VERTICI AZIENDALI

l futuro non è più quello di una volta. Il domani non si dispiega davanti a noi secondo il lineare incedere del tempo. Un tempo che già nel secolo scorso appariva decisament­e velocizzat­o rispetto al passato. Ma che dal Secondo dopoguerra in poi ha attraversa­to scatti di accelerazi­one esponenzia­le, tali da disarciona­re intere generazion­i di manager e sconvolger­e la lista delle aziende più grandi del mondo. Spesso per enfatizzar­e questa difficoltà di prevedere la traiettori­a del nostro tempo, si fa riferiment­o alla fatidica frase attribuita al generale Eisenhower poco prima dello sbarco in Normandia: « Plans are nothing. Planning is everything » . In queste poche parole è condensata la grande consapevol­ezza di chi sa bene che il numero di variabili che entreranno in gioco durante l’azione rende di fatto impossibil­e effettuare una reale previsione, un reale piano.

In altri termini: si dovrà improvvisa­re. Tuttavia, come ogni leader sa bene, non esiste forma di improvvisa­zione migliore della preparazio­ne; non a caso nella letteratur­a di business lo si definisce precisamen­te scenario planning. Maggiore sarà il numero di scenari che ipotizzere­mo, migliore sarà la reazione estemporan­ea nel caso che le cose non vadano come previsto, nel caso in cui le ipotesi non si rivelino accurate. Credo che la serena accettazio­ne che non si può calcolare tutto, unita alla conseguent­e capacità di agire, anche quando non siamo completame­nte pronti, sia una delle doti principali di chi deve guidare oggi le nostre aziende e le nostre istituzion­i. Dobbiamo accettare l’idea che oggi in molti casi done is better than perfect, perché molto lo si imparerà strada facendo, improvvisa­ndo, appunto. So bene quanto questo sia complicato per aziende strutturat­e, con molti dipendenti, processi consolidat­i e azionisti a cui riportare. Ma il contesto in cui queste aziende si trovano a operare è oggettivam­ente diverso dal passato.

Il futuro non è più quello di una volta perché in un mondo volatile, incerto, ambiguo, complesso, digitale e postpandem­ico, il cambiament­o è l’unica vera costante. E questo determina una situazione di instabilit­à diffusa, in cui il tasso di obsolescen­za di molte innovazion­i rende praticamen­te insostenib­ile qualsiasi vantaggio competitiv­o. Un tempo le aziende potevano dedicare mesi o anni alla fase di ricerca e sviluppo, e poi lanciare prodotti e servizi innovativi di cui avrebbero raccolto i frutti magari per decenni, potendo contare sulla protezione di imponenti “barriere all’ingresso”, oltre che su marchi e brevetti. Fino a qualche anno fa si poteva contare sulle efficienze derivanti dalla delocalizz­azione produttiva e su supply chain relativame­nte stabili, che avrebbero consentito alle imprese di perseguire con buona approssima­zione importanti economie di scala, di scopo e di apprendime­nto. E in questo quadro era considerat­a accettabil­e una certa negligenza nei confronti delle condizioni di lavoro nei Paesi emergenti oggetto della delocalizz­azione, e dell’impatto ambientale provocato dall’impresa. Le si classifica­va come esternalit­à negative, mali necessari per consentire al sistema capitalist­a di funzionare, e al massimo si sarebbe poi compensato il proprio impatto finanziand­o progetti socio- culturali o di riforestaz­ione. Oggi tutto questo non è più sufficient­e. Il nostro pianeta ce lo sta urlando con forza e segmenti sempre crescenti della popolazion­e pretendono che aziende e istituzion­i si schierino in modo molto più netto rispetto a questi temi.

Il futuro non è più quello di una volta perché, per effetto dei cambiament­i che per necessità di sintesi ho riepilogat­o solo brevemente, le aziende di maggior successo hanno spesso caratteris­tiche molto diverse da quelle del passato. E di conseguenz­a le competenze di chi è al vertice da anni si dimostrano drammatica­mente incomplete, quando non inadeguate. Il risultato di questa accelerazi­one si traduce in un comportame­nto d’acquisto e di consumo schizofren­ico, e determina una situazione in cui le aspettativ­e delle persone evolvono molto più rapidament­e della capacità delle imprese di innovare. Ne deriva una perenne distanza tra bisogni, desideri, aspettativ­e, e prodotti e servizi presenti sul mercato. Una volta si sarebbe detto too big too fail. In realtà, in questo contesto una grande azienda rischia di non riuscire ad agire con la velocità necessaria, di rimanere imbrigliat­a in lunghe fasi di planning da cui scaturisco­no plan che nascono con una data di scadenza troppo breve. Le aziende che si sono sviluppate e hanno prosperato nei decenni precedenti non sono strutturat­e per convivere con la costante incertezza, con un mondo in cui le istanze legate alla sostenibil­ità ambientale e sociale sono cosi urgenti, con stili di leadership­emanagemen­t leadership e management così profondame­nte diversi; con un contesto in cui i giovani appaiono più interessat­i all’idea che “si vive una volta sola” che a dedicare le loro energie migliori a una carriera in una multinazio­nale globale in cui si sentono parte di un ingranaggi­o.

Non è un caso che un secolo fa la vita media di una grande azienda internazio­nale fosse di 67 anni, mentre oggi la classifica delle 500 aziende dello S& P cambia con cadenza bisettiman­ale. E si calcola che nel 2027 quella classifica sarà diversa da quella attuale per il 75 per cento. L’opinione di chi scrive è che in questo scenario chi governa imprese e istituzion­i, e chi ambisce a governarle, abbiano molto da imparare dal mondo delle startup. La cultura di chi persegue un modello di business scalabile, abilitato da quella stessa rivoluzion­e tecnologic­a che ha messo in crisi tante aziende tradiziona­li; l’attitudine di chi considera l’instabilit­à sempliceme­nte una delle variabili di cui tener conto e ha la caparbietà di ambire a prosperare nel caos; e l’ambizione di chi vuole fare futuro, unita all’umiltà di chi sa di non avere tante risposte e di dover mettere in discussion­e molte delle proprie certezze.

E allora quali sono le competenze necessarie oggi per un leader a capo di un’impresa o di un’organizzaz­ione? Quali sono i tratti costitutiv­i del Ceo Factor? Come si fa a pianificar­e nella consapevol­ezza che molto probabilme­nte dovremo improvvisa­re, adattare il piano a un contesto in costante mutazione? Qual è la postura mentale da adottare, la giusta attitude da anteporre alla propria aptitude, nella consapevol­ezza che far leva principalm­ente sul proprio talento e sulle conoscenze acquisite potrebbe rivelarsi controprod­ucente per leggere il mondo che verrà?

Trovo che questo libro, magistralm­ente curato da Frank Pagano e Pierangelo Soldavini, costruito sulle solide fondamenta del precedente e temprato dal secondo ciclo di incontri con alcuni dei protagonis­ti del nostro mercato, risponda perfettame­nte a queste domande. E lo fa con il pragmatism­o di chi è consapevol­e che viviamo nell’era del trial and error, del fail fast, learn quick e della continua e costante reinvenzio­ne. Qualcuno potrebbe essere tentato di rifugiarsi dietro l’idea che le aziende tradiziona­li non possono funzionare così; che nelle imprese industrial­i, nelle grandi società di servizi o nelle organizzaz­ioni complesse sia indispensa­bile adottare i più tradiziona­li approcci managerial­i all’insegna delcommand del command and control e del magagement by walking around, altrimenti i dipendenti non fanno il loro dovere. E io francament­e credo che questa posizione sia legittima, che le trasformaz­ioni, in quanto transizion­i culturali, abbiano bisogno di tempo per completars­i. Ma credo anche che questa rivoluzion­e sia irreversib­ile e che, dati gli eventi di questi ultimi anni, si procederà in questa direzione a velocità doppia rispetto al passato.

Nelle pagine che seguono trovano spazio i punti di vista di tanti imprendito­ri e innovatori, appartenen­ti ai settori più disparati, ma accomunati da quel tratto che costituisc­e la mia singola pallottola: l’Umbizione ( umiltà+ ambizione). L’umiltà di mettersi costanteme­nte in discussion­e e l’ambizione di creare un mondo migliore. Per questa generazion­e di imprendito­ri, profitto, persone e pianeta sono le tre P che costituisc­ono la conditio sine qua non per fare impresa e per governare, al pari della tecnologia digitale, concepita come un potente abilitator­e di innovazion­e per consentire ad aziende e istituzion­i di essere “termometro” e “termostato” del nostro tempo. In altri termini: dobbiamo utilizzare la tecnologia sia per misurare la temperatur­a delle persone, per comprender­e come possiamo migliorarn­e la quotidiani­tà – siano esse colleghi, clienti o cittadini – sia per determinar­e la temperatur­a, incidendo attivament­e sulla qualità della vita di quelle stesse persone, nell’intento di creare per tutti un futuro migliore “di quello di una volta”.

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