I leader del futuro dovranno coniugare umiltà e ambizione
IIL MONDO CAMBIA A UNA VELOCITà TALE DA RENDERE INCOMPLETE LE COMPETENZE DI MOLTI VERTICI AZIENDALI
l futuro non è più quello di una volta. Il domani non si dispiega davanti a noi secondo il lineare incedere del tempo. Un tempo che già nel secolo scorso appariva decisamente velocizzato rispetto al passato. Ma che dal Secondo dopoguerra in poi ha attraversato scatti di accelerazione esponenziale, tali da disarcionare intere generazioni di manager e sconvolgere la lista delle aziende più grandi del mondo. Spesso per enfatizzare questa difficoltà di prevedere la traiettoria del nostro tempo, si fa riferimento alla fatidica frase attribuita al generale Eisenhower poco prima dello sbarco in Normandia: « Plans are nothing. Planning is everything » . In queste poche parole è condensata la grande consapevolezza di chi sa bene che il numero di variabili che entreranno in gioco durante l’azione rende di fatto impossibile effettuare una reale previsione, un reale piano.
In altri termini: si dovrà improvvisare. Tuttavia, come ogni leader sa bene, non esiste forma di improvvisazione migliore della preparazione; non a caso nella letteratura di business lo si definisce precisamente scenario planning. Maggiore sarà il numero di scenari che ipotizzeremo, migliore sarà la reazione estemporanea nel caso che le cose non vadano come previsto, nel caso in cui le ipotesi non si rivelino accurate. Credo che la serena accettazione che non si può calcolare tutto, unita alla conseguente capacità di agire, anche quando non siamo completamente pronti, sia una delle doti principali di chi deve guidare oggi le nostre aziende e le nostre istituzioni. Dobbiamo accettare l’idea che oggi in molti casi done is better than perfect, perché molto lo si imparerà strada facendo, improvvisando, appunto. So bene quanto questo sia complicato per aziende strutturate, con molti dipendenti, processi consolidati e azionisti a cui riportare. Ma il contesto in cui queste aziende si trovano a operare è oggettivamente diverso dal passato.
Il futuro non è più quello di una volta perché in un mondo volatile, incerto, ambiguo, complesso, digitale e postpandemico, il cambiamento è l’unica vera costante. E questo determina una situazione di instabilità diffusa, in cui il tasso di obsolescenza di molte innovazioni rende praticamente insostenibile qualsiasi vantaggio competitivo. Un tempo le aziende potevano dedicare mesi o anni alla fase di ricerca e sviluppo, e poi lanciare prodotti e servizi innovativi di cui avrebbero raccolto i frutti magari per decenni, potendo contare sulla protezione di imponenti “barriere all’ingresso”, oltre che su marchi e brevetti. Fino a qualche anno fa si poteva contare sulle efficienze derivanti dalla delocalizzazione produttiva e su supply chain relativamente stabili, che avrebbero consentito alle imprese di perseguire con buona approssimazione importanti economie di scala, di scopo e di apprendimento. E in questo quadro era considerata accettabile una certa negligenza nei confronti delle condizioni di lavoro nei Paesi emergenti oggetto della delocalizzazione, e dell’impatto ambientale provocato dall’impresa. Le si classificava come esternalità negative, mali necessari per consentire al sistema capitalista di funzionare, e al massimo si sarebbe poi compensato il proprio impatto finanziando progetti socio- culturali o di riforestazione. Oggi tutto questo non è più sufficiente. Il nostro pianeta ce lo sta urlando con forza e segmenti sempre crescenti della popolazione pretendono che aziende e istituzioni si schierino in modo molto più netto rispetto a questi temi.
Il futuro non è più quello di una volta perché, per effetto dei cambiamenti che per necessità di sintesi ho riepilogato solo brevemente, le aziende di maggior successo hanno spesso caratteristiche molto diverse da quelle del passato. E di conseguenza le competenze di chi è al vertice da anni si dimostrano drammaticamente incomplete, quando non inadeguate. Il risultato di questa accelerazione si traduce in un comportamento d’acquisto e di consumo schizofrenico, e determina una situazione in cui le aspettative delle persone evolvono molto più rapidamente della capacità delle imprese di innovare. Ne deriva una perenne distanza tra bisogni, desideri, aspettative, e prodotti e servizi presenti sul mercato. Una volta si sarebbe detto too big too fail. In realtà, in questo contesto una grande azienda rischia di non riuscire ad agire con la velocità necessaria, di rimanere imbrigliata in lunghe fasi di planning da cui scaturiscono plan che nascono con una data di scadenza troppo breve. Le aziende che si sono sviluppate e hanno prosperato nei decenni precedenti non sono strutturate per convivere con la costante incertezza, con un mondo in cui le istanze legate alla sostenibilità ambientale e sociale sono cosi urgenti, con stili di leadershipemanagement leadership e management così profondamente diversi; con un contesto in cui i giovani appaiono più interessati all’idea che “si vive una volta sola” che a dedicare le loro energie migliori a una carriera in una multinazionale globale in cui si sentono parte di un ingranaggio.
Non è un caso che un secolo fa la vita media di una grande azienda internazionale fosse di 67 anni, mentre oggi la classifica delle 500 aziende dello S& P cambia con cadenza bisettimanale. E si calcola che nel 2027 quella classifica sarà diversa da quella attuale per il 75 per cento. L’opinione di chi scrive è che in questo scenario chi governa imprese e istituzioni, e chi ambisce a governarle, abbiano molto da imparare dal mondo delle startup. La cultura di chi persegue un modello di business scalabile, abilitato da quella stessa rivoluzione tecnologica che ha messo in crisi tante aziende tradizionali; l’attitudine di chi considera l’instabilità semplicemente una delle variabili di cui tener conto e ha la caparbietà di ambire a prosperare nel caos; e l’ambizione di chi vuole fare futuro, unita all’umiltà di chi sa di non avere tante risposte e di dover mettere in discussione molte delle proprie certezze.
E allora quali sono le competenze necessarie oggi per un leader a capo di un’impresa o di un’organizzazione? Quali sono i tratti costitutivi del Ceo Factor? Come si fa a pianificare nella consapevolezza che molto probabilmente dovremo improvvisare, adattare il piano a un contesto in costante mutazione? Qual è la postura mentale da adottare, la giusta attitude da anteporre alla propria aptitude, nella consapevolezza che far leva principalmente sul proprio talento e sulle conoscenze acquisite potrebbe rivelarsi controproducente per leggere il mondo che verrà?
Trovo che questo libro, magistralmente curato da Frank Pagano e Pierangelo Soldavini, costruito sulle solide fondamenta del precedente e temprato dal secondo ciclo di incontri con alcuni dei protagonisti del nostro mercato, risponda perfettamente a queste domande. E lo fa con il pragmatismo di chi è consapevole che viviamo nell’era del trial and error, del fail fast, learn quick e della continua e costante reinvenzione. Qualcuno potrebbe essere tentato di rifugiarsi dietro l’idea che le aziende tradizionali non possono funzionare così; che nelle imprese industriali, nelle grandi società di servizi o nelle organizzazioni complesse sia indispensabile adottare i più tradizionali approcci manageriali all’insegna delcommand del command and control e del magagement by walking around, altrimenti i dipendenti non fanno il loro dovere. E io francamente credo che questa posizione sia legittima, che le trasformazioni, in quanto transizioni culturali, abbiano bisogno di tempo per completarsi. Ma credo anche che questa rivoluzione sia irreversibile e che, dati gli eventi di questi ultimi anni, si procederà in questa direzione a velocità doppia rispetto al passato.
Nelle pagine che seguono trovano spazio i punti di vista di tanti imprenditori e innovatori, appartenenti ai settori più disparati, ma accomunati da quel tratto che costituisce la mia singola pallottola: l’Umbizione ( umiltà+ ambizione). L’umiltà di mettersi costantemente in discussione e l’ambizione di creare un mondo migliore. Per questa generazione di imprenditori, profitto, persone e pianeta sono le tre P che costituiscono la conditio sine qua non per fare impresa e per governare, al pari della tecnologia digitale, concepita come un potente abilitatore di innovazione per consentire ad aziende e istituzioni di essere “termometro” e “termostato” del nostro tempo. In altri termini: dobbiamo utilizzare la tecnologia sia per misurare la temperatura delle persone, per comprendere come possiamo migliorarne la quotidianità – siano esse colleghi, clienti o cittadini – sia per determinare la temperatura, incidendo attivamente sulla qualità della vita di quelle stesse persone, nell’intento di creare per tutti un futuro migliore “di quello di una volta”.