Il Sole 24 Ore

NELL’AIUTO ANTI INFLAZIONE LE PARTITE IVA PAGANO PEGNO AL REDDITO DI CITTADINAN­ZA

- Di Gianni Trovati

Come si fa ad allungare di tre milioni di persone la lista dei destinatar­i del bonus anti inflazione senza trovare coperture nuove? L’intuizione suggerisce che qualcun altro debba pagare pegno rinunciand­o all’aiuto previsto all’inizio. L’evoluzione delle bozze del decreto Aiuti approvato in due tappe la scorsa settimana aiuta a capire chi paga: sono le partite Iva.

Breve riassunto delle puntate precedenti. Nella formula uscita dal primo consiglio dei ministri di lunedì 2 maggio e illustrata dal governo in conferenza stampa, il bonus sarebbe andato a dipendenti, pensionati e autonomi con un reddito fino a 35mila euro lordi. Nella versione rivista dopo il secondo consiglio dei ministri di giovedì 5 maggio, su spinta del Movimento 5 Stelle come raccontano le cronache, l’aiuto si allarga ai titolari del reddito di cittadinan­za, oltre che a lavoratori domestici e stagionali. Con quali soldi?

L’ultima bozza del decreto scioglie il mistero. Per i lavoratori autonomi la soglia di reddito sotto la quale si ha diritto ai 200 euro non sarà di 35mila euro come scritto nei primi testi. A fissarla sarà un decreto attuativo che i ministeri dell’Economia e del Lavoro dovranno scrivere entro 30 giorni.

Prevedere che quel decreto dovrà fermarsi decisament­e sotto i 35mila euro che sono invece confermati per dipendenti e autonomi non è complicato. Il quadro dei finanziame­nti disegnato dall’ultima versione del testo ferma a 400 milioni di euro la fetta per le partite Iva di un fondo che invece vale 2,76 miliardi per i dipendenti, 2,74 per i pensionati e 604 milioni per i titolari del reddito di cittadinan­za e le altre categorie ripescate in extremis.

Con 400 milioni di possono pagare due milioni di bonus. E, statistich­e fiscali alla mano, per abbracciar­e due milioni di partite Iva bisogna fermarsi intorno ai 10mila euro di reddito. L’alternativ­a esiste, ma non cambia la sostanza della questione: si può infatti ampliare il numero di lavoratori autonomi a cui destinare il bonus, alleggeren­do però l’assegno in modo proporzion­ale.

In entrambi i casi, l’inflazione che pesa sulle tasche delle partite Iva vale meno di quella degli altri. Oppure merita meno aiuto. Anche se le bollette che arrivano a casa, o le somme che si tirano alla cassa del supermerca­to, faticano ad addentrars­i in distinzion­i del genere.

Comunque la si giri, le partite Iva sembrano insomma destinate a una sorta di serie B del bonus contro il caroprezzi: sono circa l’ 11% dei contribuen­ti italiani, ma ottengono solo il 6% dell’aiuto che, se sarà da 200 euro per tutti, riguarderà poco più del 40% degli autonomi contro il 62% dei dipendenti e l’ 89% dei pensionati.

Non sono in discussion­e le difficoltà estreme che il governo ha dovuto affrontare per raccoglier­e i fondi per il miniassegn­o, e nemmeno il fatto che 200 euro una tantum difficilme­nte segnano una differenza fra i sommersi e i salvati. Ma il dislivello è evidente. E la politica, che dovrà convertire in legge il decreto in un Parlamento che spesso si lamenta di essere trattato da passacarte, ha due modi per affrontarl­o: scatenare la solita guerra tra poveri, con una polemica dai toni alti ma dai risultati scarsi su chi sia più meritevole dell’aiuto, oppure tentare una strada più razionale per trovare nei 1.008 miliardi di spesa pubblica prevista per quest’anno le poche centinaia di milioni che servono a garantire a tutti lo stesso trattament­o. Basteranno pochi giorni a capire quale sarà la scelta.

La nuova bozza mostra che l’ampliament­o deciso nel secondo cdm taglia il bonus previsto per i lavoratori autonomi

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