In Iraq più grave la crisi post elezioni, dopo otto mesi è ancora senza governo
Intravedere una via d’uscita La popolazione è esasperata dai rincari alimentari dopo 50 anni di guerre e guerriglie
Le lotte intestine tra i riottosi partiti politici non fanno
Dovevano essere le elezioni del cambiamento. Figlie di una protesta popolare trasversale e interreligiosa che mai si era vista in Iraq. Una seconda primavera araba, trasformatasi troppo presto in autunno, che voleva scrollarsi di dosso una volta per tutte la corruzione tra i Palazzi del potere.
In Medio Oriente essere realisti significa essere cinici. Memori di quanto accaduto negli ultimi 12 anni, ancor prima di recarsi alle urne gli iracheni erano già rassegnati: chiunque fosse il vincitore, anche l’elezione anticipata dello scorso ottobre ai loro occhi rappresentava la cronaca di un fallimento annunciato.
Il copione è stato rispettato. Sono trascorsi otto mesi e l’Iraq non solo non ha ancora un Governo. Le lotte intestine tra i riottosi partiti politici, anche in seno alla stessa coalizione, non consentono di intravvedere una via di uscita ad una crisi capace di degenerare da un giorno all’altro in un periodo di per sé già molto difficile.
La popolazione è esasperata. Dopo 50 anni di guerre e guerriglie senza soluzione di continuità questo periodo di relativa stabilità doveva rappresentare un chance per risollevare l’ex regno di Saddam Hussein.
L’Eldorado del petrolio, il Paese che vanta le quinte riserve mondiali accertate, ma che ne nasconde altri 200 miliardi di barili ancora da certificare, vive il classico paradosso mediorientale. Le città sono martoriate dai blackout per l’assenza di elettricità. La benzina, pur sussidiata, scarseggia. Manca perfino l’energia per far funzionare le pompe idriche.
Il Governo provvisorio, diviso, impotente, in balia delle pressioni iraniane, non pare in grado di assumere nemmeno quelle iniziative non più rimandabili per scongiurare una crisi alimentare che arriva da lontano,
Che siano sciiti, sunniti o curdi, il risultato non cambia: l’ingovernabilità. L’ultimo voto aveva tuttavia riservato una sorpresa. Era scontato che vincesse una coalizione sciita – sono la maggioranza del paese – meno però che all’interno di questa compagnie divisa il gruppo guidato dal clerico Moqtada al Sadr, auto proclamatosi paladino del nazionalismo iracheno in salsa religiosa, arrivasse primo. Impensabile fino a pochi giorni prima che la potente coalizione filo- iraniana al cui interno militano i rappresentanti di feroci milizie armate, la Coordination Framework, accusasse una storica débâcle perdendo i due terzi dei seggi. Da navigato politico, al- Sadr aveva compreso che, per provare a formare un Governo, doveva creare un gruppo eterogeneo. Nella sua coalizione figurano Taqadum, un partito sunnita guidato da Mohammed Halbousi, eletto presidente del parlamento a gennaio, e il Partito Democratico curdo guidato da Masoud Barzani. Il blocco è intenzionato a formare un governo di maggioranza.
Sarebbe il primo da quando è stato introdotto dopo l’invasione americana del 2003 un sistema di condivisione confessionale del potere, in cui, tra l’altro, il presidente della Repubblica deve essere curdo . E proprio sulla figura del presidente si sono arenati i sogni di Moqtada. Il suo partito ha sì ottenuto il maggior numero di seggi alle elezioni, tuttavia non è stato in grado di portare dalla sua parte abbastanza onorevoli in modo da ottenere la maggioranza dei due terzi necessaria per eleggere il prossimo presidente dell’Iraq. Si tratta del passo preliminare a cui poi segue la nomina del premier ed infine la formazione del Governo.
La strada è ancora molto lunga. E la soluzione rischia di essere sempre la stessa. Formare un Governo di coalizione ad interim in attesa di maggior chiarezza. Anche al- Sadr se ne sarà fatto una ragione. Da alleato di ferro dell’Iran, a nemico di Teheran. La parabola del famoso clerico populista sciita, salito alla ribalta dei media internazionali per la sua guerra quasi personale contro le truppe americane dopo la caduta del regime iracheno, è sorprendente. Al Sadr, un tempo a capo di una temibile milizia filo- iraniana, ha via via preso le distanze da Teheran fino a diventare un fervido nazionalista. La sua campagna elettorale, dai toni populisti, anche stavolta è stata imperniata sulla guerra senza quartiere contro l’ingerenza delle potenze straniere, Iran e Stati Uniti.
L’Iran però è deciso a mantenere il vicino Iraq come una sorta di protettorato, un cortile di casa necessario a portare avanti i suoi disegni in Medio Oriente. Le proteste della popolazione irachena, soffocate nel sangue proprio dalle milizie filo- iraniane, hanno creato un distacco non previsto tra le due capitali.
I rapporti non sono certo idilliaci. Tanto che di recente Teheran ha tagliato cinque milioni di metri cubi di esportazioni di gas a Baghdad. Il motivo? Ufficialmente problemi di mancato pagamento. Ma , forse, si tratta di una punizione per aver osato ciò che non si poteva osare: provare ad emanciparsi dal soffocante abbraccio degli Ayatollah di Teheran.
Nell’Eldorado del petrolio scarseggia la benzina. Le città sono martoriate dai blackout per l’assenza di energia