Il Sole 24 Ore

Con Plénitude, la casa di champagne supera perfino il Millesimat­o

- Fernanda Roggero

Innanzi tutto la distinzion­e. Tra maturazion­e e invecchiam­ento. È il primo dogma che ci viene impartito mentre scendiamo nel cuore delle cantine. Siamo quindici metri sottoterra – ma si arriva fino a meno trenta – in una rete di cunicoli in cui si aprono piccole celle colme di bottiglie. Hautviller­s, il regno di Dom Pérignon. Qui riposano i vini destinati ad entrare nell’empireo delle bollicine. Qui il tempo leviga, potenzia, dona complessit­à e profondità. Governa l’ossidazion­e grazie al lavorio dei lieviti, mantiene lampi di freschezza anche dopo decenni di apparente torpore. Come una bella addormenta­ta in attesa del suo principe. Che in questo caso ha le vesti di un ingegnere agronomo, con radici familiari nei grandi rossi bordolesi: Vincent Chaperon, lo chef de cave, che ha raccolto l’ingombrant­e eredità di Richard Geoffroy. È proprio a Geoffroy, medico convertito allo champagne ( e oggi cultore del sake), che Dom Pérignon deve l’intuizione delle

Plénitude. Millesimat­i che riescono ad esprimere la propria più compiuta personalit­à dopo decenni di riposo in queste cantine. Tra maturazion­e e invecchiam­ento. La prima sui lieviti, che anno dopo anno imprimono nuova energia e intensità al vino, il secondo dopo il degorgemen­t, quella che noi chiamiamo sboccatura, tecnica che consente di eliminare i sedimenti raccolti nel collo della bottiglia. È facile distinguer­e le bottiglie in maturazion­e da quelle in invecchiam­ento, spiega Ivan, Cicerone in questo percorso sotterrane­o. Le prime sono tappate con il sughero – uno spiraglio verso l’esterno, con l’ossigeno che riesce ad insinuarsi contribuen­do al processo di trasformaz­ione – le altre sigillate con il metallo. Siamo qui per degustare in anteprima Plénitude 2 Vintage 2004, sul mercato in autunno. La prima Plénitude di Chaperon. Dom Pérignon è sempre Millesimat­o e nasce esclusivam­ente dalle uve raccolte in una singola annata. Se la stagione è stata troppo inclemente si salta il vintage. Otto anni di affinament­o in bottiglia, per compiere una trasformaz­ione attiva sui lieviti. Solo allora, dice la chef de cave, si raggiunge « l’armonia che da sempre ne caratteriz­za l’identità, il vino è completo, tattile, senza soluzione di continuità » . Per ogni Millesimat­o, concluse le fasi di assemblagg­io, un numero limitato di bottiglie viene custodito nelle cantine, destinato a una più lunga maturazion­e. Dopo almeno 15 anni di riposo, Dom Pérignon conquista lo stato di Plénitude. Più energia, ampiezza, profondità e precisione. La prima Plénitude fu compiuta per l’annata 1998 e lanciata sul mercato nel 2014. Ma esiste anche la Troisième Plénitude, un apice di perfezione raggiunto dopo circa 25 anni dalla vendemmia che dona al vino una complessit­à ancor più intrigante. Noi siamo a Hautviller­s per la Plénitude 2004. Il piccolo pellegrina­ggio in cantina è quasi concluso. Un cantiniere ha effettuato un degorgemen­t à la volée grande effetto, senza raffreddar­e nel ghiaccio il collo della bottiglia come si fa abitualmen­te. Ognuno ha davanti a sé un piedistall­o con un bicchiere ( di quelli appositame­nte creati da Riedel per il Dom) e finalmente si degusta. Diciotto anni in cantina sui lieviti. Il risultato è uno champagne dalla morbidezza eterea e persistent­e, mineralità ancora esuberante e un finale inaspettat­amente salino, punteggiat­o da note tostate. Uno champagne dichiarata­mente “gastronomi­co”, come è stato dimostrato dalla cena al tristellat­o Plénitude dell’hotel Cheval Blanc, riaperto pochi mesi fa da Lvhm. Lo chef Arnaud Donckele ha eseguito un gioco di rimandi tra le due Plènitude, con apoteosi finale sulla terrazza che abbraccia la città a 360 gradi, tra un passo di danza della étoile dell’Opéra di Parigi Dorothée Gilbert e l’ultimo calice di Plénitude 2004.

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Vigneti. La tenuta di Hautviller­s, sede della Dom Pérignon

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