Con Plénitude, la casa di champagne supera perfino il Millesimato
Innanzi tutto la distinzione. Tra maturazione e invecchiamento. È il primo dogma che ci viene impartito mentre scendiamo nel cuore delle cantine. Siamo quindici metri sottoterra – ma si arriva fino a meno trenta – in una rete di cunicoli in cui si aprono piccole celle colme di bottiglie. Hautvillers, il regno di Dom Pérignon. Qui riposano i vini destinati ad entrare nell’empireo delle bollicine. Qui il tempo leviga, potenzia, dona complessità e profondità. Governa l’ossidazione grazie al lavorio dei lieviti, mantiene lampi di freschezza anche dopo decenni di apparente torpore. Come una bella addormentata in attesa del suo principe. Che in questo caso ha le vesti di un ingegnere agronomo, con radici familiari nei grandi rossi bordolesi: Vincent Chaperon, lo chef de cave, che ha raccolto l’ingombrante eredità di Richard Geoffroy. È proprio a Geoffroy, medico convertito allo champagne ( e oggi cultore del sake), che Dom Pérignon deve l’intuizione delle
Plénitude. Millesimati che riescono ad esprimere la propria più compiuta personalità dopo decenni di riposo in queste cantine. Tra maturazione e invecchiamento. La prima sui lieviti, che anno dopo anno imprimono nuova energia e intensità al vino, il secondo dopo il degorgement, quella che noi chiamiamo sboccatura, tecnica che consente di eliminare i sedimenti raccolti nel collo della bottiglia. È facile distinguere le bottiglie in maturazione da quelle in invecchiamento, spiega Ivan, Cicerone in questo percorso sotterraneo. Le prime sono tappate con il sughero – uno spiraglio verso l’esterno, con l’ossigeno che riesce ad insinuarsi contribuendo al processo di trasformazione – le altre sigillate con il metallo. Siamo qui per degustare in anteprima Plénitude 2 Vintage 2004, sul mercato in autunno. La prima Plénitude di Chaperon. Dom Pérignon è sempre Millesimato e nasce esclusivamente dalle uve raccolte in una singola annata. Se la stagione è stata troppo inclemente si salta il vintage. Otto anni di affinamento in bottiglia, per compiere una trasformazione attiva sui lieviti. Solo allora, dice la chef de cave, si raggiunge « l’armonia che da sempre ne caratterizza l’identità, il vino è completo, tattile, senza soluzione di continuità » . Per ogni Millesimato, concluse le fasi di assemblaggio, un numero limitato di bottiglie viene custodito nelle cantine, destinato a una più lunga maturazione. Dopo almeno 15 anni di riposo, Dom Pérignon conquista lo stato di Plénitude. Più energia, ampiezza, profondità e precisione. La prima Plénitude fu compiuta per l’annata 1998 e lanciata sul mercato nel 2014. Ma esiste anche la Troisième Plénitude, un apice di perfezione raggiunto dopo circa 25 anni dalla vendemmia che dona al vino una complessità ancor più intrigante. Noi siamo a Hautvillers per la Plénitude 2004. Il piccolo pellegrinaggio in cantina è quasi concluso. Un cantiniere ha effettuato un degorgement à la volée grande effetto, senza raffreddare nel ghiaccio il collo della bottiglia come si fa abitualmente. Ognuno ha davanti a sé un piedistallo con un bicchiere ( di quelli appositamente creati da Riedel per il Dom) e finalmente si degusta. Diciotto anni in cantina sui lieviti. Il risultato è uno champagne dalla morbidezza eterea e persistente, mineralità ancora esuberante e un finale inaspettatamente salino, punteggiato da note tostate. Uno champagne dichiaratamente “gastronomico”, come è stato dimostrato dalla cena al tristellato Plénitude dell’hotel Cheval Blanc, riaperto pochi mesi fa da Lvhm. Lo chef Arnaud Donckele ha eseguito un gioco di rimandi tra le due Plènitude, con apoteosi finale sulla terrazza che abbraccia la città a 360 gradi, tra un passo di danza della étoile dell’Opéra di Parigi Dorothée Gilbert e l’ultimo calice di Plénitude 2004.