Per il Patto di stabilità una riforma che punti su semplicità e trasparenza
Scenari europei / 3
Lasospensione a sospensione del Patto di stabilità e crescita, prolungata al 2023 grazie alla clausola di salvaguardia che ne ha congelato l’applicazione dal marzo del 2020 a causa della pandemia e dopo per lo scoppio del conflitto russo- ucraino, permette una più attenta analisi delle sue criticità sia sotto l’aspetto teorico sia della evidenza empirica, rendendone improcrastinabile la riforma. Fondato sul rigido rispetto dei rapporti deficit/ Pil al 3% e debito/ Pil al 60% sanciti dell’articolo 104 lettera C del T+ rattato di Maastricht, il Patto fu approvato nel 1997 tramite il ricorso alla normativa secondaria prevista dagli articoli 99 e 104, nel timore di ricorrere a un nuovo Trattato dopo l’esito negativo o di limitato consenso dei referendum indetti in più nazioni europee. Giovanni Magnifico, all’epoca Direttore centrale per le attività operative della Banca d’Italia, in un volume per i tipi della Luiss dal significativo titolo Euro: squilibri finanziari e spiragli di soluzione, scrisse che « vi era una forte riluttanza a prendere in considerazione cambiamenti e integrazioni che comportassero una riapertura del Trattato, per il timore che si mettesse in moto un processo per il quale non era dato di formulare ipotesi attendibili se e come si sarebbe concluso » . Perciò, inserito in due risoluzioni politiche del Consiglio europeo nel dicembre del 1996, il Patto fu adottato nel vertice di Amsterdam del giugno del 1997. L’adozione di una procedura politica, anziché giuridica, è stata confermata anche da Romano Prodi in una intervista rilasciata nel 2019 e che già nel 2002 opportunamente definì stupido anche se necessario il Patto. Questo si basava su un semplice presupposto: ipotizzando una crescita del Pil nominale intorno al 5% e un tasso d’inflazione al 2%, con un rapporto deficit/ Pil al 3%, il parametro debito/ Pil sarebbe risultato in linea col valore di riferimento del 60 % del debito. Contemporaneamente, prevedeva, nel medio termine, il pareggio di bilancio o un avanzo, che avrebbe permesso di ridurre ulteriormente quei rapporti. L’allora presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, alla domanda di quali ne fossero i paradigmi teorici rispose che era « economicamente difficile da spiegare » .
Queste semplici, e semplicistiche, premesse, come fu sottolineato a suo tempo, erano errate anche sotto l’aspetto dell’evidenza empirica. Anzitutto nella previsione di crescita del reddito nominale, che fino alla prima riforma del Patto, nel 2005, e dopo, si mantenne in media e in termini reali a un livello pressoché dimezzato. Inoltre, la crisi finanziaria della prima metà degli anni 90 del Novecento aveva causato un netto peggioramento dei disavanzi. I pochi Stati virtuosi erano Danimarca, Lussemburgo e Germania, ma quest’ultima, ancora nel 1995, registrava un deficit del 3,5 per cento. Il limite del parametro deficit/ Pil era attribuito, anche, al valore della cosiddetta golden rule of public finance, che prevedeva che esso non dovesse superare la spesa di investimento che si aggirava nella Repubblica federale tedesca intorno a quel livello di riferimento. Non a caso, nel 1995, fu proprio il ministro delle Finanze tedesco Theodor Waigel a proporre l’adozione di un Patto di stabilità per cancellare il principio di flessibilità introdotto per i parametri del Trattato di Maastricht da Guido Carli, all’epoca ministro del Tesoro, che riteneva « assurdo » che le condizioni di finanza pubblica di una nazione fossero valutate in termini di punti percentuali prestabiliti rispetto al Pil, senza considerarne le reali condizioni dell’economia. Era necessario che almeno per il rapporto debito/ Pil si verificasse solo la tendenza al raggiungimento del valore prestabilito, rifiutando la rigidità voluta dalla Germania al fine dell’adozione della moneta unica. L’interpretazione di Carli permise all’Italia, e non solo, di poter entrare nell’eurozona sin dall’inizio; basti ricordare che all’ultimo monitoraggio del Consiglio europeo per l’adozione dell’euro, nel maggio del 1998, su 11 Paesi ammessi su 12, la Grecia otterrà una breve deroga, 7 erano al di sopra del valore di riferimento del 60 per cento. Le critiche ai suoi contenuti, però, furono reiterate anche dopo le riforme del 2005 e del 2011, nonostante l’introduzione di obiettivi a medio termine differenziati per Paese, il prolungamento dei vincoli temporali per la correzione dei deficit, la valutazione degli oneri finanziari delle riforme strutturali e così via. Permanevano, infatti, e permangono, i problemi di politiche fiscali pro- cicliche, di asimmetria tra i Paesi in deficit e quelli in surplus, di conflitto d’interesse tra vigilanti e vigilati all’interno del Consiglio europeo; e questo, nonostante le numerose proposte di riforma mai realizzate. Tra le più recenti, finalizzate al rientro nel 2023 del Patto di stabilità, alcune sembrano più inerenti alle nuove condizioni macroeconomiche dell’Europa finalmente passata dall’austerità alla solidarietà dopo la pandemia e lo scoppio del conflitto russo ucraino, con il Nex generation Eu, il fondo Sure, la deroga provvisoria agli aiuti di Stato, l’emissione di euro bond e con il recente Re- Power Eu. Anzitutto, l’esclusione dal disavanzo degli investimenti produttivi, proposta più volte reiterata e ormai resa necessaria per quelli previsti dal Pnrr per la transizione ecologica, per la digitalizzazione, per la mobilità sostenibile e altri, in particolare per i beni comuni quali ricerca e innovazione, difesa e sicurezza. Altra proposta percorribile, che non esclude la precedente, la facoltà per i singoli Stati di elaborare in relazione al proprio quadro macroeconomico un programma di rientro del debito e di contenimento del deficit, definendone tempi e modalità. Si tratta di accettare regole proposte dai Parlamenti nazionali e non imposte dalle istituzioni europee. Questo progetto è, quantomeno in linea di principio, coerente con la recente Conferenza sul futuro dell’Europa per esaminare i cambiamenti dell’Unione desiderati dai cittadini per un rinnovato processo di allargamento della democrazia e di limitazione del potere dell’euroburocrazia. Meno percorribile ci appare l’utilizzo del solo rapporto debito/ Pil, o di elevarne il periodo di rientro da 20 a 40 anni. Resta, però, un interrogativo da porsi: il Patto di stabilità, di cui il parametro deficit/ Pil privo di fondamento teorico e smentito dall’evidenza empirica e quello debito/ Pil riconosciuto errato dagli stessi autori, quanto ha influito sull’aumento delle condizioni di povertà e di disagio sociale in Europa? In conclusione, mi piace ricordare quanto ha scritto Mariana Mazzucato nel 2018 sui valori che ha definito magici del Patto: « Questi numeri pretendono di fissare limiti oggettivi all’indebitamento statale. Ma da dove vengono? Si potrebbe immaginare che si sia arrivati ad essi tramite un qualche processo scientifico – ma è sbagliato. Questi numeri sono presi dal nulla, non sono sostenuti né dalla teoria né dalla pratica » . Una ragione in più per riflettere, e attentamente, sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, giudicato dalla stessa Commissione europea troppo complesso e poco trasparente.