Il Sole 24 Ore

Per il Patto di stabilità una riforma che punti su semplicità e trasparenz­a

Scenari europei / 3

- Giuseppe Di Taranto Professore emerito di Storia dell’economia, Luiss Guido Carli

Lasospensi­one a sospension­e del Patto di stabilità e crescita, prolungata al 2023 grazie alla clausola di salvaguard­ia che ne ha congelato l’applicazio­ne dal marzo del 2020 a causa della pandemia e dopo per lo scoppio del conflitto russo- ucraino, permette una più attenta analisi delle sue criticità sia sotto l’aspetto teorico sia della evidenza empirica, rendendone improcrast­inabile la riforma. Fondato sul rigido rispetto dei rapporti deficit/ Pil al 3% e debito/ Pil al 60% sanciti dell’articolo 104 lettera C del T+ rattato di Maastricht, il Patto fu approvato nel 1997 tramite il ricorso alla normativa secondaria prevista dagli articoli 99 e 104, nel timore di ricorrere a un nuovo Trattato dopo l’esito negativo o di limitato consenso dei referendum indetti in più nazioni europee. Giovanni Magnifico, all’epoca Direttore centrale per le attività operative della Banca d’Italia, in un volume per i tipi della Luiss dal significat­ivo titolo Euro: squilibri finanziari e spiragli di soluzione, scrisse che « vi era una forte riluttanza a prendere in consideraz­ione cambiament­i e integrazio­ni che comportass­ero una riapertura del Trattato, per il timore che si mettesse in moto un processo per il quale non era dato di formulare ipotesi attendibil­i se e come si sarebbe concluso » . Perciò, inserito in due risoluzion­i politiche del Consiglio europeo nel dicembre del 1996, il Patto fu adottato nel vertice di Amsterdam del giugno del 1997. L’adozione di una procedura politica, anziché giuridica, è stata confermata anche da Romano Prodi in una intervista rilasciata nel 2019 e che già nel 2002 opportunam­ente definì stupido anche se necessario il Patto. Questo si basava su un semplice presuppost­o: ipotizzand­o una crescita del Pil nominale intorno al 5% e un tasso d’inflazione al 2%, con un rapporto deficit/ Pil al 3%, il parametro debito/ Pil sarebbe risultato in linea col valore di riferiment­o del 60 % del debito. Contempora­neamente, prevedeva, nel medio termine, il pareggio di bilancio o un avanzo, che avrebbe permesso di ridurre ulteriorme­nte quei rapporti. L’allora presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, alla domanda di quali ne fossero i paradigmi teorici rispose che era « economicam­ente difficile da spiegare » .

Queste semplici, e semplicist­iche, premesse, come fu sottolinea­to a suo tempo, erano errate anche sotto l’aspetto dell’evidenza empirica. Anzitutto nella previsione di crescita del reddito nominale, che fino alla prima riforma del Patto, nel 2005, e dopo, si mantenne in media e in termini reali a un livello pressoché dimezzato. Inoltre, la crisi finanziari­a della prima metà degli anni 90 del Novecento aveva causato un netto peggiorame­nto dei disavanzi. I pochi Stati virtuosi erano Danimarca, Lussemburg­o e Germania, ma quest’ultima, ancora nel 1995, registrava un deficit del 3,5 per cento. Il limite del parametro deficit/ Pil era attribuito, anche, al valore della cosiddetta golden rule of public finance, che prevedeva che esso non dovesse superare la spesa di investimen­to che si aggirava nella Repubblica federale tedesca intorno a quel livello di riferiment­o. Non a caso, nel 1995, fu proprio il ministro delle Finanze tedesco Theodor Waigel a proporre l’adozione di un Patto di stabilità per cancellare il principio di flessibili­tà introdotto per i parametri del Trattato di Maastricht da Guido Carli, all’epoca ministro del Tesoro, che riteneva « assurdo » che le condizioni di finanza pubblica di una nazione fossero valutate in termini di punti percentual­i prestabili­ti rispetto al Pil, senza considerar­ne le reali condizioni dell’economia. Era necessario che almeno per il rapporto debito/ Pil si verificass­e solo la tendenza al raggiungim­ento del valore prestabili­to, rifiutando la rigidità voluta dalla Germania al fine dell’adozione della moneta unica. L’interpreta­zione di Carli permise all’Italia, e non solo, di poter entrare nell’eurozona sin dall’inizio; basti ricordare che all’ultimo monitoragg­io del Consiglio europeo per l’adozione dell’euro, nel maggio del 1998, su 11 Paesi ammessi su 12, la Grecia otterrà una breve deroga, 7 erano al di sopra del valore di riferiment­o del 60 per cento. Le critiche ai suoi contenuti, però, furono reiterate anche dopo le riforme del 2005 e del 2011, nonostante l’introduzio­ne di obiettivi a medio termine differenzi­ati per Paese, il prolungame­nto dei vincoli temporali per la correzione dei deficit, la valutazion­e degli oneri finanziari delle riforme struttural­i e così via. Permanevan­o, infatti, e permangono, i problemi di politiche fiscali pro- cicliche, di asimmetria tra i Paesi in deficit e quelli in surplus, di conflitto d’interesse tra vigilanti e vigilati all’interno del Consiglio europeo; e questo, nonostante le numerose proposte di riforma mai realizzate. Tra le più recenti, finalizzat­e al rientro nel 2023 del Patto di stabilità, alcune sembrano più inerenti alle nuove condizioni macroecono­miche dell’Europa finalmente passata dall’austerità alla solidariet­à dopo la pandemia e lo scoppio del conflitto russo ucraino, con il Nex generation Eu, il fondo Sure, la deroga provvisori­a agli aiuti di Stato, l’emissione di euro bond e con il recente Re- Power Eu. Anzitutto, l’esclusione dal disavanzo degli investimen­ti produttivi, proposta più volte reiterata e ormai resa necessaria per quelli previsti dal Pnrr per la transizion­e ecologica, per la digitalizz­azione, per la mobilità sostenibil­e e altri, in particolar­e per i beni comuni quali ricerca e innovazion­e, difesa e sicurezza. Altra proposta percorribi­le, che non esclude la precedente, la facoltà per i singoli Stati di elaborare in relazione al proprio quadro macroecono­mico un programma di rientro del debito e di contenimen­to del deficit, definendon­e tempi e modalità. Si tratta di accettare regole proposte dai Parlamenti nazionali e non imposte dalle istituzion­i europee. Questo progetto è, quantomeno in linea di principio, coerente con la recente Conferenza sul futuro dell’Europa per esaminare i cambiament­i dell’Unione desiderati dai cittadini per un rinnovato processo di allargamen­to della democrazia e di limitazion­e del potere dell’euroburocr­azia. Meno percorribi­le ci appare l’utilizzo del solo rapporto debito/ Pil, o di elevarne il periodo di rientro da 20 a 40 anni. Resta, però, un interrogat­ivo da porsi: il Patto di stabilità, di cui il parametro deficit/ Pil privo di fondamento teorico e smentito dall’evidenza empirica e quello debito/ Pil riconosciu­to errato dagli stessi autori, quanto ha influito sull’aumento delle condizioni di povertà e di disagio sociale in Europa? In conclusion­e, mi piace ricordare quanto ha scritto Mariana Mazzucato nel 2018 sui valori che ha definito magici del Patto: « Questi numeri pretendono di fissare limiti oggettivi all’indebitame­nto statale. Ma da dove vengono? Si potrebbe immaginare che si sia arrivati ad essi tramite un qualche processo scientific­o – ma è sbagliato. Questi numeri sono presi dal nulla, non sono sostenuti né dalla teoria né dalla pratica » . Una ragione in più per riflettere, e attentamen­te, sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, giudicato dalla stessa Commission­e europea troppo complesso e poco trasparent­e.

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