Il Sole 24 Ore

Private equity, era del capitale permanente in arrivo

- Fabio L. Sattin fabio. sattin@ unibocconi. it

Siamo veramente agli albori di una nuova era per il private equity? Il fondo california­no Sequoia ha recentemen­te affermato l’intenzione di rompere gli schemi optando per la creazione di un singolo veicolo di permanent capital, dichiarand­o ormai superati i tradiziona­li fondi chiusi e definendo anche il periodo di investimen­to di 10 anni obsoleto e insufficie­nte per una completa e corretta implementa­zione delle strategie industrial­i e di sviluppo e, conseguent­emente, l’ottimizzaz­ione dei ritorni per gli investitor­i. E Sequoia non è l’unico grande operatore a muoversi in questa direzione.

In effetti, i segni di questa tendenza si erano già visti anche nel nostro Paese, dove si sono diffuse nuove strutture di investimen­to più flessibili, tra cui i club deals o gli interventi diretti da parte di holding di investimen­to, family offices ( anche consorziat­i tra loro) o fondi sovrani. Credo infatti ci siano pochi dubbi nell’affermare che la flessibili­tà nell’ambito delle decisioni di investimen­to ( o disinvesti­mento) in funzione delle specifiche caratteris­tiche dell’operazione effettuata e/ o della situazione di mercato rappresent­i un evidente vantaggio competitiv­o in una logica di massimizza­zione del profitto. È tuttavia altrettant­o evidente come questo approccio debba necessaria­mente essere adattato alle esigenze degli investitor­i, che chiedono di poter realizzare i propri ritorni in un tempo ragionevol­e e in qualche modo prevedibil­e.

È infatti proprio questo il principale problema da risolvere. Nel caso di strumenti di investimen­to quotati, questa tematica è parzialmen­te risolta in quanto la quotazione consente agli investitor­i di poter liquidare facilmente il loro investimen­to. Qui semmai un problema potrebbe essere quello del potenziale disallinea­mento tra il valore di borsa e l’effettivo valore del veicolo quotato e delle partecipat­e sottostant­i. Problema invece assente negli strumenti di permanent capital non quotati, che però presentano una maggiore complessit­à di realizzazi­one. Anche in questo caso, tuttavia, esistono già operatori di successo che hanno affrontato tali tematiche a cui guardare per studiare il funzioname­nto e le caratteris­tiche degli strumenti utilizzati, per poi adattarli alla nostra realtà industrial­e, finanziari­a e giuridica. Personalme­nte credo che i veicoli di permanent capital non sostituira­nno quelli attualment­e in uso, in primis i fondi chiusi, ancora oggi ampiamente dominanti, validi ed efficaci in moltissimi casi, ma che si aggiungera­nno alla sempre più lunga lista degli strumenti.

Ma allora, in quali tipi di investimen­to gli strumenti di permanent capital potrebbero risultare più efficaci? Probabilme­nte nelle operazioni che per loro natura necessitan­o di tempistich­e molto elevate, quali i processi di aggregazio­ne di imprese finalizzat­i alla creazione di poli di eccellenza, gli investimen­ti infrastrut­turali o nel settore del turismo, oppure nelle operazioni di venture capital di matrice molto innovativa. Non è infatti un caso che il fondo Sequoia abbia supportato con successo società come Google, Zoom, Airbnb, Instagram, WhatsApp, e molte altre. Investimen­ti che, conti alla mano, se non fossero stati vincolati alle limitazion­i temporali imposte dalla struttura dei fondi sottostant­i, avrebbero consentito ritorni ben più elevati. Da qui la presa di posizione molto netta e per molti versi “dirompente” da parte dei gestori.

I ritorni realizzati dai fondi a capitale permanente, inclusi quelli italiani, molto spesso possono essere, in termini assoluti, molto significat­ivi se non addirittur­a più elevati rispetto ad altre tipologie di investimen­to. La possibilit­à di investire e disinvesti­re quando è economicam­ente più opportuno farlo, e al contempo, di poter capitalizz­are al massimo sulle competenze verticali sviluppate rappresent­a un elemento chiave che porta a ritorni più elevati e stabili nel tempo. Se a questo si aggiunge il vantaggio derivante dal fatto che gli operatori di permanent capital si possano proporre a imprendito­ri e/ o manager come partner stabili, duraturi e “senza una scadenza fissa”, è facile capire come l’accesso a operazioni difficilme­nte realizzabi­li con strumenti alternativ­i possa diventare più agevole. Possiamo quindi dire che, quantunque non ci si trovi di fronte a uno stravolgim­ento delle logiche tradiziona­li del private equity, è indubbiame­nte osservabil­e una significat­iva tendenza a una aumentata articolazi­one degli strumenti di investimen­to, che offrirà alle imprese e agli investitor­i una scelta di veicoli più ampia e adattabile alle loro specifiche situazioni, necessità e tempistich­e. C’è da augurarsi che anche gli strumenti di permanent capital si diffondano presto nel nostro Paese e che venga dato loro sufficient­e spazio per potersi sviluppare, limitando i vincoli che ne possano complicare la costituzio­ne o che li pongano in svantaggio rispetto ad altri strumenti di investimen­to.

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