L’economia circolare e le scelte dolorose che attendono la politica
OCOME IN TUTTI I CAMBIAMENTI DI PARADIGMA NON TUTTI GLI EQUILIBRI POTRANNO ESSERE MANTENUTI
gni volta che si ridisegna un modello di business circolare applicato in maniera estensiva a un settore ci si rende conto del fatto che questo genera un effetto displacement, lo spiazzamento di attori economici che avevano la propria ragione d’essere in un modello lineare e che invece sono espulsi o marginalizzati in un modello circolare. Altri attori economici […] anche se hanno ragioni di rimanere all’interno dell’ecosistema circolare, sono costretti a modificare in maniera significativa a loro volta il proprio modello di business. Questa modifica – e non è affatto irrilevante – riguarda sia gli asset sia le competenze necessarie per svolgere il proprio ruolo in un ecosistema circolare. Perché allora la politica? Perché di fronte a un cambiamento potenziale di questa portata valgono le parole di Machiavelli: « Non v’è nulla di più difficile da realizzare, né di più incerto esito, né più pericoloso da gestire, che iniziare un nuovo ordine di cose. Perché il riformatore ha nemici tra tutti quelli che traggono profitto dal vecchio ordine, e solo dei tiepidi difensori in tutti quelli che dovrebbero trarre profitto dal nuovo » .
Il riequilibrio che dev’essere qui messo in atto è decisamente più complesso […] e deve trarre ispirazione dallo sviluppo di politiche industriali « di filiera » . Vi sono esempi virtuosi a cui è possibile rifarsi, uno su tutti quello del governo danese che nel 2015 ha intrapreso un percorso di analisi della propria economia in ottica di trasformazione circolare e ha messo in atto nell’orizzonte 20182022 un’ambiziosa Strategia per l’economia circolare. Un nuovo piano, che arriva sino al 2032, è stato recentemente messo a punto.
Una delle filiere sin da subito coinvolte, scelta proprio perché rappresentava, in termini di domanda complessiva, una fetta rilevante dell’economia del Paese, è stata quella delle costruzioni. Il ridisegno, supportato dagli investimenti e dalle azioni della politica, ha riguardato l’intero ciclo di vita del building, a partire dalla spinta verso la produzione di componenti modulari e l’uso, non a caso, del 3D printing per massimizzare la flessibilità produttiva, per passare poi all’impiego di politiche di incentivazione per l’utilizzo condiviso e multipurpose, con una commistione più ampia e flessibile in particolare tra uso residenziale e terziario, e una gestione della fase di fine vita che non passasse più dalla demolizione dell’edificio, quanto dalla sua decostruzione.
[…] Più di qualcuno avrà pensato che è difficile paragonare il nostro contesto a quello danese, sia per dimensioni sia per approccio alla politica. Non è questa la sede per entrare in tale dibattito o proporre analogie troppo ardite. Tuttavia, non si può affrontare compiutamente il tema dell’economia circolare senza considerare la necessità di riequilibrare il displacement che si genera nella trasformazione.
È anzi indubbiamente questa una delle ragioni principali per cui, a oggi, l’economia circolare è meno pervasiva e presente di quanto potrebbe essere. È questa anche la ragione per cui l’economia circolare non può essere oggi ritenuta la soluzione « a ogni costo » da applicare a qualsiasi contesto. L’alternativa però, si badi bene, non è certo desiderabile, poiché il displacement in agguato, quello associato all’insostenibilità nel lungo termine del consumo delle risorse è ben peggiore di quello che abbiamo qui raccontato relativo al passaggio all’economia circolare. È su questo orizzonte temporale, e sulla valutazione di dove questo abbia un impatto più rilevante sull’economia di un Paese ( e non a caso la Danimarca è partita proprio dall’analisi delle componenti del proprio Pil), che la politica deve esercitare il suo ruolo più alto.
C’è un ultimo, inevitabile, passaggio da fare nell’analizzare il contesto complessivo in cui si innesta la trasformazione verso l’economia circolare ed è come questa cambia – e purtroppo di recente abbiamo visto quanto pericoloso e doloroso sia toccare simili argomenti – l’equilibrio a livello geopolitico.
[…] Vi è infatti un lato « nascosto » dell’economia circolare che viene spesso un po’ sottaciuto, ma che è bene invece considerare. Per come è ideata, l’economia circolare comporta un intrinseco shift del valore generato dalle fonti di creazione delle risorse e delle materie prime verso le fonti di consumo. La maggior parte delle attività economiche che hanno a che vedere con l’economia circolare ( la rilavorazione, il riuso, la manutenzione) devono infatti avvenire nella prossimità dell’utilizzo finale.
[…] È opportuno poi considerare che anche la fase di ridisegno dei prodotti è tipicamente collocata là dove c’è la domanda, e dove l’interazione con il cliente/ utilizzatore consente di immaginare nuovi modi ( circolari) di soddisfare il fabbisogno. E così vale per la ricerca e l’innovazione ( necessaria per mettere a punto le soluzioni originali e le tecnologie per l’economia circolare), ma che è anch’essa un acceleratore delle economie avanzate.
È chiaro allora perché l’Europa, più che altre aree del mondo, è particolarmente interessata alla transizione verso l’economia circolare, essendo strutturalmente povera di materie prime e risorse, ma ricchissima di domanda. E non è un caso che il secondo Paese al mondo per interesse verso l’economia circolare sia la Cina, che assomma la ricchezza delle risorse a disposizione a una domanda enorme e potenzialmente ancora largamente inespressa. L’economia circolare non è quindi, a priori, una soluzione win- win, in cui tutti i soggetti – siano essi le imprese in diverse parti della filiera o le diverse economie nazionali o i clienti finali o i lavoratori anch’essi appartenenti a diverse geografie – ottengono un vantaggio dal fatto che si abbandoni il modello lineare. È indubbiamente una soluzione win- win per il sistema economico nel suo complesso, se lo si guarda dall’esterno e quindi senza fare distinzioni fra i diversi soggetti che lo compongono, considerando che garantisce la possibilità di far crescere la domanda anche più di quanto le risorse ( linearmente impiegate) consentirebbero di fare.
È però una soluzione che, come tutti i cambiamenti di paradigma, richiede la ricostituzione di equilibri tra i diversi soggetti, con alcuni a cui sarà destinato maggiore valore economico e altri che invece dovranno fare i conti con le perdite. Non tutto può essere riequilibrato ed è indispensabile trovare dei compromessi.
È questo il ruolo della politica, che sarà costretta a fare delle scelte, talora anche dolorose.
È compito invece delle imprese, dei manager e degli imprenditori, mettere al servizio della transizione verso l’economia circolare le migliori idee, le migliori tecnologie, i migliori e più efficaci modelli di business, per rendere alla politica quanto meno gravoso possibile il resto del compito.