Politiche climatiche realiste per affrancarci da Mosca e Pechino
Materie prime e de- globalizzazione
CIL DECOUPLING TRA DEMOCRAZIE LIBERALI E REGIMI AUTOCRATICI AVRà PESANTI EFFETTI INFLAZIONISTICI
he lo scoppio della pandemia prima e l’aggressione russa in Ucraina dopo abbiano rappresentato un cambio di paradigma degli equilibri mondiali in vigore dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso sembra essere oramai un concetto ben assodato. Se infatti l’emergenza sanitaria ha messo in luce la vulnerabilità dell’Occidente sul lato produttivo, la guerra ha sancito una spaccatura difficilmente sanabile con i governi di Mosca e Pechino. Un passaggio, quella dalla globalizzazione alla de- globalizzazione, che ha sta avendo forti ripercussioni sui mercati delle materie prime e della logistica, alimentando così un nuovo scenario inflazionistico che l’Occidente non sembra sufficientemente in grado di affrontare. Il primo segnale di impreparazione dei policymaker è giunto dalla sottovalutazione nel biennio 2020- 2021 del rischio inflazionistico, che sta ora costringendo le banche centrali a intraprendere un serrato processo di quantitative tightening, dando il via a un sensibile aumento della volatilità sui mercati di cui l’ampliamento dello spread Btp- Bund è uno dei tanti campanelli di allarme. Ma, a prescindere dai rischi di stabilità finanziaria legati al nuovo corso di politica monetaria, il secondo errore che i policymaker rischiano di commettere è quello di pensare che sia sufficiente alzare velocemente i tassi di interesse, anche a rischio di provocare una recessione nel 2023, per riportare l’inflazione sotto controllo. Wishful thinking in purezza.
Le banche centrali hanno certamente il potere di far scoppiare le bolle speculative ( come sta accadendo con le criptovalute e i non- fungible token), ma difficilmente riusciranno per esempio a riportare il prezzo delle commodities sui livelli prepandemici. La ragione è semplice: le sollecitazioni sul lato dell’offerta nel comparto delle materie prime rimangono enormi a causa non di fantomatiche dinamiche speculative, ma di molteplici fattori di natura fondamentale tra cui: le sanzioni applicate dall’Occidente contro il regime russo; la separazione in atto tra blocco dell’Ovest e blocco dell’Est; le politiche climatiche. Sul primo fronte risulta evidente come, al fine di compensare il calo dell’import di petrolio da parte di Stati Uniti ed Europa per effetto del sesto pacchetto di sanzioni, il governo russo non solo taglierà la produzione di greggio, mantenendone così alti i prezzi, ma proseguirà nell’azione di ritorsioni sul mercato del gas. L’ultima conferma è giunta nei giorni scorsi dopo l’annuncio di Gazprom di tagliare le forniture verso Italia e Germania che ha provocato il ritorno del prezzo del gas al Ttf ( Title transfer facility, un mercato di riferimento per lo scambio del gas naturale) oltre i 100 euro/ Mwh. Mosca in sostanza è ben consapevole che se l’azione di stoccaggio di gas proseguisse regolarmente si troverebbe nella condizione di non poter più manipolare il mercato il prossimo inverno. Il processo di weaponization del gas da parte di Mosca si accompagna alla crescente presa da parte della Cina sul comparto delle materie prime: attraverso la zero- Covid strategy il governo di Pechino sfrutta la pandemia per esercitare il totale controllo sui cicli economici, perseguendo una chiara strategia autarchica di accaparramento dei metalli e beni agricoli, che utilizzerà a suo vantaggio quando arriverà il redde rationem su Taiwan. Tanto per rendere l’idea, Pechino a oggi detiene il 93% delle scorte mondiali di rame, il 74% di quelle di alluminio, il 68% di quelle di mais e il 51% di quelle di frumento. Con queste premesse non occorre essere dei fini osservatori per notare come sia in atto un processo di decoupling tra le democrazie liberali e i regimi autocratici che avrà profondi effetti inflazionistici in ragione proprio della spaccatura delle catene di fornitura globali. La compressione dei prezzi e dei tassi di interesse a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni fino allo scoppio della pandemia non è stato il risultato di lungimiranti politiche monetarie, ma dell’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori cinesi e dell’Est Europa nell’economia mondiale. Un vero e proprio dividendo demografico che ha spinto al ribasso salari e costo dei prodotti esportati in Occidente, ma che ora si sta progressivamente esaurendo. In un quadro di estrema tensione sul lato dell’offerta poco comprensibile appare la testardaggine con cui le élite europee perseguono zelanti piani di riduzione delle CO2, come ha dimostrato la decisione del Parlamento Ue di bandire le auto a combustione entro il 2035. Seppur nobili nel loro intento ( riduzione dell’inquinamento e indipendenza energetica), i piani di sviluppo delle tecnologie legate all’elettrificazione di fatto disincentivano le major energetiche e minerarie nell’intraprendere nuovi investimenti in capacità produttiva, alimentando così la condizione di deficit strutturale non solo nel mercato del petrolio, ma anche in quello dei carburanti e metalli. L’obiettivo di tali politiche è chiaro: spingere il prezzo dei combustibili fossili al punto tale da rendere economicamente attraenti le fonti green nella speranza che i consumatori inizino a dirottare gli acquisti verso le applicazioni elettriche. Si tratta di una politica miope che oltre a impoverire ingiustificatamente imprese e consumatori provocherà forti squilibri sulla bilancia commerciale europea una volta che arriveranno auto elettriche made in China. Ma i rischi sono anche di natura geostrategica se pensiamo che il regime di Pechino oltre a controllare la filiera delle terre rare e i processi di raffinazione di litio, cobalto e nichel, produce oltre la metà degli elettrolizzatori necessari per la produzione di idrogeno verde. In sostanza l’Occidente si trova oggi a fare i conti con un problema inflazionistico intrinsecamente legato a quello dell’approvvigionamento di cui non vi è piena coscienza. Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui il necessario processo di restrizione monetaria ( l’Occidente non può permettersi di aver un tasso inflazionistico da Paese emergente) non sia stato accompagnato da politiche di incentivo sul lato dell’offerta. Perché se è vero che l’innalzamento dei tassi è funzionale al mantenimento del potere geoeconomico dell’Occidente, è altrettanto vero che l’inflazione e lo shortage di materie prime è possibile risolverli nel lungo termine solo con investimenti produttivi, controllo della logistica e dei capitali. In quest’ottica rivedere le politiche climatiche, incentrandole non più sull’esclusione di combustili fossili, ma sullo sviluppo di tutte le fonti ( fossili e green) sembra essere l’unica via per tagliare in maniera definitiva il cordone che ci lega ai regimi di Mosca e Pechino e scongiurare un’inflazione a due cifre.