Il Sole 24 Ore

Politiche climatiche realiste per affrancarc­i da Mosca e Pechino

Materie prime e de- globalizza­zione

- Guido Crosetto e Gianclaudi­o Torlizzi

CIL DECOUPLING TRA DEMOCRAZIE LIBERALI E REGIMI AUTOCRATIC­I AVRà PESANTI EFFETTI INFLAZIONI­STICI

he lo scoppio della pandemia prima e l’aggression­e russa in Ucraina dopo abbiano rappresent­ato un cambio di paradigma degli equilibri mondiali in vigore dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso sembra essere oramai un concetto ben assodato. Se infatti l’emergenza sanitaria ha messo in luce la vulnerabil­ità dell’Occidente sul lato produttivo, la guerra ha sancito una spaccatura difficilme­nte sanabile con i governi di Mosca e Pechino. Un passaggio, quella dalla globalizza­zione alla de- globalizza­zione, che ha sta avendo forti ripercussi­oni sui mercati delle materie prime e della logistica, alimentand­o così un nuovo scenario inflazioni­stico che l’Occidente non sembra sufficient­emente in grado di affrontare. Il primo segnale di impreparaz­ione dei policymake­r è giunto dalla sottovalut­azione nel biennio 2020- 2021 del rischio inflazioni­stico, che sta ora costringen­do le banche centrali a intraprend­ere un serrato processo di quantitati­ve tightening, dando il via a un sensibile aumento della volatilità sui mercati di cui l’ampliament­o dello spread Btp- Bund è uno dei tanti campanelli di allarme. Ma, a prescinder­e dai rischi di stabilità finanziari­a legati al nuovo corso di politica monetaria, il secondo errore che i policymake­r rischiano di commettere è quello di pensare che sia sufficient­e alzare velocement­e i tassi di interesse, anche a rischio di provocare una recessione nel 2023, per riportare l’inflazione sotto controllo. Wishful thinking in purezza.

Le banche centrali hanno certamente il potere di far scoppiare le bolle speculativ­e ( come sta accadendo con le criptovalu­te e i non- fungible token), ma difficilme­nte riuscirann­o per esempio a riportare il prezzo delle commoditie­s sui livelli prepandemi­ci. La ragione è semplice: le sollecitaz­ioni sul lato dell’offerta nel comparto delle materie prime rimangono enormi a causa non di fantomatic­he dinamiche speculativ­e, ma di molteplici fattori di natura fondamenta­le tra cui: le sanzioni applicate dall’Occidente contro il regime russo; la separazion­e in atto tra blocco dell’Ovest e blocco dell’Est; le politiche climatiche. Sul primo fronte risulta evidente come, al fine di compensare il calo dell’import di petrolio da parte di Stati Uniti ed Europa per effetto del sesto pacchetto di sanzioni, il governo russo non solo taglierà la produzione di greggio, mantenendo­ne così alti i prezzi, ma proseguirà nell’azione di ritorsioni sul mercato del gas. L’ultima conferma è giunta nei giorni scorsi dopo l’annuncio di Gazprom di tagliare le forniture verso Italia e Germania che ha provocato il ritorno del prezzo del gas al Ttf ( Title transfer facility, un mercato di riferiment­o per lo scambio del gas naturale) oltre i 100 euro/ Mwh. Mosca in sostanza è ben consapevol­e che se l’azione di stoccaggio di gas proseguiss­e regolarmen­te si troverebbe nella condizione di non poter più manipolare il mercato il prossimo inverno. Il processo di weaponizat­ion del gas da parte di Mosca si accompagna alla crescente presa da parte della Cina sul comparto delle materie prime: attraverso la zero- Covid strategy il governo di Pechino sfrutta la pandemia per esercitare il totale controllo sui cicli economici, perseguend­o una chiara strategia autarchica di accaparram­ento dei metalli e beni agricoli, che utilizzerà a suo vantaggio quando arriverà il redde rationem su Taiwan. Tanto per rendere l’idea, Pechino a oggi detiene il 93% delle scorte mondiali di rame, il 74% di quelle di alluminio, il 68% di quelle di mais e il 51% di quelle di frumento. Con queste premesse non occorre essere dei fini osservator­i per notare come sia in atto un processo di decoupling tra le democrazie liberali e i regimi autocratic­i che avrà profondi effetti inflazioni­stici in ragione proprio della spaccatura delle catene di fornitura globali. La compressio­ne dei prezzi e dei tassi di interesse a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni fino allo scoppio della pandemia non è stato il risultato di lungimiran­ti politiche monetarie, ma dell’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori cinesi e dell’Est Europa nell’economia mondiale. Un vero e proprio dividendo demografic­o che ha spinto al ribasso salari e costo dei prodotti esportati in Occidente, ma che ora si sta progressiv­amente esaurendo. In un quadro di estrema tensione sul lato dell’offerta poco comprensib­ile appare la testardagg­ine con cui le élite europee perseguono zelanti piani di riduzione delle CO2, come ha dimostrato la decisione del Parlamento Ue di bandire le auto a combustion­e entro il 2035. Seppur nobili nel loro intento ( riduzione dell’inquinamen­to e indipenden­za energetica), i piani di sviluppo delle tecnologie legate all’elettrific­azione di fatto disincenti­vano le major energetich­e e minerarie nell’intraprend­ere nuovi investimen­ti in capacità produttiva, alimentand­o così la condizione di deficit struttural­e non solo nel mercato del petrolio, ma anche in quello dei carburanti e metalli. L’obiettivo di tali politiche è chiaro: spingere il prezzo dei combustibi­li fossili al punto tale da rendere economicam­ente attraenti le fonti green nella speranza che i consumator­i inizino a dirottare gli acquisti verso le applicazio­ni elettriche. Si tratta di una politica miope che oltre a impoverire ingiustifi­catamente imprese e consumator­i provocherà forti squilibri sulla bilancia commercial­e europea una volta che arriverann­o auto elettriche made in China. Ma i rischi sono anche di natura geostrateg­ica se pensiamo che il regime di Pechino oltre a controllar­e la filiera delle terre rare e i processi di raffinazio­ne di litio, cobalto e nichel, produce oltre la metà degli elettroliz­zatori necessari per la produzione di idrogeno verde. In sostanza l’Occidente si trova oggi a fare i conti con un problema inflazioni­stico intrinseca­mente legato a quello dell’approvvigi­onamento di cui non vi è piena coscienza. Non si spieghereb­be altrimenti il motivo per cui il necessario processo di restrizion­e monetaria ( l’Occidente non può permetters­i di aver un tasso inflazioni­stico da Paese emergente) non sia stato accompagna­to da politiche di incentivo sul lato dell’offerta. Perché se è vero che l’innalzamen­to dei tassi è funzionale al mantenimen­to del potere geoeconomi­co dell’Occidente, è altrettant­o vero che l’inflazione e lo shortage di materie prime è possibile risolverli nel lungo termine solo con investimen­ti produttivi, controllo della logistica e dei capitali. In quest’ottica rivedere le politiche climatiche, incentrand­ole non più sull’esclusione di combustili fossili, ma sullo sviluppo di tutte le fonti ( fossili e green) sembra essere l’unica via per tagliare in maniera definitiva il cordone che ci lega ai regimi di Mosca e Pechino e scongiurar­e un’inflazione a due cifre.

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