Sfilata per Memphis, quando fu movimento pop e d’avanguardia
Narra la leggenda che il gruppo di artisti, grafici e designer che di lì a poco diede vita al collettivo Memphis, abbia scelto il nome del “movimento” grazie a una profetica impasse: ascoltavano Bob Dylan e la puntina si incantò sull’LP per ripetere instancabilmente tre parole: « Memphis Blues
Again » . Vero o solo molto ben raccontato che sia, l’anedotto era perfettamente incarnato nella mostra « Memphis Again » alla Triennale di Milano ( snello catalogo Silvana), visibile e meditabile durante il fantasmagorico Salone che tutto inghiotte, sputa e dimentica. Ad accogliere il visitatore era il titolo ( al neon, ovvio) che faceva lampeggiare solo la parola « again » , restituendo il motivo della ripetizione e il senso di perpetuo di again and again. E il fatto che il curatore della mostra fosse Christoph Radl, uno, bravo, che c’era fin dall’inizio, nell’avventura Memphis, ha aggiunto altre e importanti valenze. Intanto l’atmosfera d’epoca, interpretata come night club, con buio, luce blu e colonna sonora ad hoc intonata ai pezzi in visione, e poi, letteralmente, questo stretto accatastamento di oggetti, tutti quelli prodotti dai Memphis ( dal 1981 al 1986) in una camminata lineare che si fa sfilata: moda e design al night: ecco tutti i simboli della Milano di allora.
Che meraviglia di mostra! E che pezzi improbabili! A rivederli tutti così, in fila, si capisce quanto Memphis sia stato rottura – l’ultima avanguardia italiana del Novecento – e, insieme, pop. Ha dato la stura, e iconicamente definito gli 80, che seppellirono, con il colore, il laminato plastico, il gusto sintetico, e, anche, con la inaccettabilità delle soluzioni estetiche, i plumbei 70. Di lì a poco, per dire, sarebbero arrivati Haring, i graffitari, il Commodre 64, McEnroe e i supremi Swatch, illusione e pozione di gioventù eterna, “sdrammatizzazione” di un simbolo serioso come il tempo che passa, grafiche e linee e colori acidi che non erano “al passo con i tempi”: erano i tempi. Memphis, istante ideologico fiammeggiante e fiasco commerciale, ha una importanza capitale nella definizione di cosa e come ( non) si doveva fare e capire il design. Pezzi brutti e ingestibili negli spazi di casa, non lo si discute nemmeno; né forma né funzione, ma presenza scenica incommensurabile. Perché, tutto merito suo, Ettore Sottsass prevedeva e pretendeva che quegli oggetti dovessero avere, in un ambiente borghese, funzione di totem ( cos’altro è Carlton?) e tabù; ché non si poteva sopportare oltre pesantezze e formalismi di decenni precedenti, anzi, di tutto il design precedente. La statura di Sottsass in Triennale, del resto, è pochi metri oltre, con la ( ri) creazione degli ambienti di Casa Lana, progettati negli anni 60 e degni di un maestro: lì la forza, soprattutto artistica, di Sottsass, è palmare.
Su « Memphis Again » , Radl ha osservato: « In mostra questi articoli vengono presentati in ordine cronologico, e percorrendo questi 80 metri si vedono i cambiamenti all’interno di Memphis. All’inizio era tutto un po’ naïf, molto colorato, giocoso. Verso la fine invece è diventato più sofisticato, buio, meno allegro. Esattamente come noi l’abbiamo vissuto » . È stata un’utopia effimera, gioiosa e respingente, nata con intenti di ribellione e morta di consunzione precoce. Da meditare, però: perché questo “miracolo” a Milano, se si vuole di bruttezza, in modo stupefacente, si è fatto, e resta, classico. Chissà se la ambiziosa città d’oggi, coi suoi profeti, sarà mai capace di rifare un Memphis. Again.