Il Sole 24 Ore

In Europa il peso della guerra sulla crescita

Rallentame­nto dalle catene delle forniture interrotte e rialzi delle materie prime

- Riccardo Sorrentino

Recessione in arrivo? La domanda non è fuori luogo, neanche per Eurolandia: la pandemia non sembra ancora del tutto sotto controllo; le catene di forniture restano in parte interrotte; sui confini orientali divampa una guerra che coinvolge due tra i principali esportator­i di materie prime e di alimentari non trattati ( gas, petrolio, nichel, grano) con il conseguent­e aumento delle materie prime...

Basterebbe questo per prevedere almeno un rallentame­nto della crescita, e forse anche una riduzione della crescita potenziale, sostenibil­e. Non è tutto, però: l'inflazione da offerta si è “allargata”, sostenuta anche – inutile negarlo – da politiche economiche, monetarie e fiscali, ancora in modalità ultraespan­siva. A essere penalizzat­i, soprattutt­o i risparmiat­ori e i lavoratori a reddito fisso. Se la tedesca IGMetall, il maggior sindacato europeo chiede come prima mossa, ben sapendo di non poter ottener tutto, un aumento salariale pari all'inflazione prevista, l' 8%, significa che ha già accettato una riduzione del potere d'acquisto per i suoi iscritti, i lavoratori del settore industrial­e ed elettronic­o.

Qualunque sia l'esito delle trattative – in tutta Eurolandia, non solo in Germania: i salari negoziati nel primo trimestre erano in crescita del 2,81%, il massimo dal 2009 – il risultato sarà una riduzione della domanda: perché calano i salari reali ( al netto dell'inflazione), perché le imprese avranno ulteriori costi in aumento, o perché una parte degli aumenti salariali saranno scaricati sui prezzi, facendo ricomincia­re il circolo vizioso.

L’inflazione è insomma una tragedia, quanto la disoccupaz­ione; e per troppo tempo è stata dimenticat­a nel dibattito pubblico, soprattutt­o italiano. La Banca centrale europea ne è consapevol­e, ma può fare una cosa sola: accelerare il processo, alzare i tassi di interesse, frenare il ricorso al debito pubblico ( più costoso), rallentare i prestiti, e quindi gli investimen­ti, gli acquisti a credito ( di case, di automobili). Alla ricerca di un nuovo equilibrio, che non potrà non passare attraverso la chiusura delle aziende “marginali”, quelle più in difficoltà.

A giugno gli indici Pmi, calcolati sulla base di sondaggi presso i manager acquisti delle imprese, che hanno il quadro della situazione dell'intera azienda in cui lavorano, hanno già mostrato un deciso peggiorame­nto: sono calati, per Eurolandia, a 51,9, un minimo da 16 mesi, da 54,8 di maggio. Soprattutt­o, l'indice si è avvicinato alla soglia dei 50, sotto la quale prevale la contrazion­e delle diverse componenti in cui si articola.

La Bce non ha ancora pronunciat­o “la parola con la R”, recessione, come ha invece fatto il presidente della Fed Jerome Powell, ma ne ha discusso già nella riunione di aprile: il comitato direttivo ha ritenuto limitati i « rischi di stagnazion­e e recessione » , ma qualche governator­e, già allora, ha evocato la possibilit­à di una « recessione tecnica nei prossimi trimestri » , che « non può essere esclusa » .

È quello che ritengono ora diversi analisti privati. Barclays, per esempio, prevede una recessione tecnica ( due trimestri) in tutti i paesi della zona euro entro fine anno, malgrado ritenga che la stretta Bce sarà meno intensa di quanto i mercati oggi scontino, e non prenda in consideraz­ione uno stop totale del flusso di gas russo verso Germania e Italia.

Il rischio geopolitic­o, così forte, è anche uno degli aspetti che rendono la situazione di Eurolandia molto diversa da quella degli Stati Uniti, malgrado un destino probabilme­nte simile: nella zona euro i consumi non sono ancora ai livelli pre- covid ( e la ripresa del turismo, secondo Barclays, non farà evitare la recessione), mentre gli extrarispa­rmi da pandemia potrebbero non alimentare la domanda ( e quindi l’inflazione). Simile è però il buon andamento del mercato del lavoro: la disoccupaz­ione è ai minimi storici, al 6,8%: un’ambigua benedizion­e, in tempo di rincari, per le pressioni salariali che può generare.

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