Il Sole 24 Ore

Il co- design dei media digitali contro la disinforma­zione

- Luca De Biase

Si può dire con una certa sicurezza che la notizia secondo la quale la vittoria di Joe Biden alle ultime elezioni americane è stata frutto di brogli è falsa. I riconteggi capillari, i controlli preventivi, il dato generale di sette milioni di voti in più per il candidato democratic­o, sono fatti documentat­i. Eppure quella notizia ha circolato, arrivando a danneggiar­e il sistema politico americano con l’assalto al Parlamento del 6 gennaio 2021. Chi aveva diffuso la notizia voleva trarne un profitto politico e il danno è evidente: ancora oggi una parte consistent­e dell’elettorato è convinta che l’attuale presidente non sia legittimo.

Spesso si tratta di persone armate fino ai denti. Tanto che ilFinancia­l il Financial Times è arrivato a ipotizzare che l’America si stia dirigendo verso una guerra civile. Ipotesi peraltro formulata già l’anno scorso dal think tank Brookings, che citava un sondaggio: il 46% degli americani ritiene che una guerra civile sia probabile.

Le notizie false fanno danni a tutti e generano profitti per qualcuno. « È la definizion­e di disinforma­zione: la diffusione di notizie parzialmen­te vere allo scopo di arrecare danno e trarre profitto » , spiega Oreste Pollicino, professore di diritto costituzio­nale all’Università Bocconi.

L’ecosistema dei media attuale non è fatto per evitare la disinforma­zione. David Chavalaria­s, matematico, ne parla in “Toxic data” ( Flammarion 2022). La maggior parte del tempo mediatico è trascorso su piattaform­e nate con il solo scopo di raccoglier­e attenzione da rivendere agli inserzioni­sti pubblicita­ri: va bene qualsiasi informazio­ne, purché raccolga attenzione. « La trasformaz­ione del vecchio mercato delle idee nell’odierno mercato delle verità produce delle vittime » , scrive l’economista Antonio Nicita in “Il mercato delle verità” ( Il Mulino 2021). E, osserva Giuliano da Empoli, in “Gli ingegneri del caos”, che tutto questo è frutto di un progetto teso a trasformar­e la democrazia. In molti casi è anche teso a fare un sacco di soldi, perché la disinforma­zione attira attenzione che le piattaform­e pagano bene. Almeno fino a oggi.

Già, perché è cominciata una possibile riscossa. La Commission­e europea ha una strategia: il paradigma normativo passa dall’autoregola­mentazione alla coregolame­ntazione. Quindi le piattaform­e non devono soltanto stare ai dettami della legge: devono aiutare il legislator­e a raggiunger­e i suoi obiettivi. Il problema è complesso. Esistono i temi della sicurezza dei cittadini, della libertà di espression­e, la privacy, la libertà di impresa e vanno trattati in modo equilibrat­o senza penalizzar­e troppo alcuni a favore di altri.

Ebbene: negli ultimi giorni si è visto un esperiment­o importante. Un gruppo di lavoro coordinato da Pollicino ha prodotto un documento firmato dalle grandi piattaform­e - Google, Microsoft, Meta, TikTok, Twitch, Twitter, Vimeo - e dalle comunità dei factchecke­r, dei ricercator­i, delle agenzie di comunicazi­one e molti altri stakeholde­r. I firmatari si prendono una serie di impegni: in particolar­e le piattaform­e cessano di pagare la disinforma­zione, cominciano a pagare il factchecki­ng, promettono di consentire ai ricercator­i l’accesso ai dati anonimizza­ti per favorire il monitoragg­io. Sono i principi essenziali di una nuova governance dell’ecosistema dei media digitali. Che saranno implementa­ti da una task force dedicata che si riunirà ogni settimana.

Un problema complesso richiede una soluzione complessa: il metodo del co- design tra tutti gli stakeholde­r può essere generalizz­ato. Per esempio ai temi dell’odio online e delle altre strategie di radicalizz­azione del malessere sociale.

‘ Bruxelles vuole che le piattaform­e aiutino a conseguire gli obiettivi Ora parte un’iniziativa che le coinvolge

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