In Sardegna l’unica miniera ma ormai è stata chiusa
Per riaprirla ci vorrebbero tre anni e investimenti per 100 milioni di euro
Le risorse non mancano e hanno un potenziale di circa cento anni. Ma nell’ultima miniera di carbone d’Italia non si lavora più per estrarre il carbone. E per una eventuale riapertura, che non può avvenire di punto in bianco, si stima un periodo di almeno tre anni, e investimenti per oltre cento milioni di euro. Perché a Nuraxi Figus, una settantina di chilometri da Cagliari, in comune di Gonnesa la produzione della Carbosulcis, azienda mineraria controllata dalla Regione Sardegna, si è fermata il 31 dicembre del 2018. Il tutto per evitare una procedura di infrazione per aiuti di Stato. Da allora è iniziato un piano di dismissione e conversione fino al 2026, che ha aperto le porte a nuovi progetti che spaziano dalla ricerca della materia oscura, con il progetto Aria, alla produzione di fertilizzanti dal carbone o ancora alla trasformazione delle gallerie in hub energetico green. Oggi il sito, che, come evidenziato dagli esperti, insiste su un giacimento di un miliardo e mezzo di tonnellate di carbone sub bituminale « con una capacità di 4.200 kilocalorie e buone caratteristiche per la combustione, contro le 5.200 degli altri che però sono carboni di antracite » è composto da gallerie lunghe più di trenta chilometri e i pozzi che si spingono sino a mezzo chilometro di profondità, andando sotto il livello del mare .
« Se ci chiedono - dice Francesco Lippi, amministratore unico di Carbosulcis - se in Italia c’è una miniera di carbone che può riprendere a funzionare, posso dire che questo atto a Nuraxi Figus è tecnicamente fattibile, naturalmente ci sono una serie di punti e nodi da sciogliere » . Ossia, « per mandare avanti un processo di questo tipo servono investimenti per oltre 100 milioni, e un piano di assunzioni dato che i dipendenti sono sempre meno » . Poi altri aspetti che riguardano « la cessione del carbone » e il fatto che « questo carbone può essere venduto solo a Portovesme » . Quanto ai tempi: « con tutte le cose fatte, non meno di 36 mesi » . « Se - aggiunge il manager - una decisione di questo tipo dovesse andare va presa ieri perché qui c’è un piano di dismissione e se si stacca la corrente e si allagano pozzi e gallerie non si potrà fare più nulla » .
Per Gian Matteo Sabiu, ingegnere impiegato nella miniera dal 2006 una delle soluzioni percorribili è quella di considerare il sito minerario « riserva strategica » . « Fare una vera e propria riserva fredda, come avviene nelle centrali a carbone, nella miniera non è possibile - spiega - anche perché ci sono delle procedure che devono essere rispettate. Un sito industriale come questo, per essere rimesso in marcia ha bisogno di almeno due anni, perché è necessario assumere e formare il personale e poi riacquistare i macchinari che servono per la produzione » . A vantaggio di una eventuale riapertura però ci sarebbero le infrastrutture giacché l’intero sottosuolo è dotato di tutti i sistemi di sicurezza e produzione. « Naturalmente queste sono scelte che deve fare la politica continua - attualmente abbiamo un’infrastruttura all’avanguardia che ha un valore elevatissimo. Per questo motivo per quanto ci riguarda sarebbe utile trasformare il sito in riserva strategica da utilizzare in caso di necessità » .