Della ricerca per agricoltura e nutraceutica
Il caso della vitamina D
Le tecnologie che agiscono sul genoma senza modificarne la struttura, ma favorendo l’espressione o, viceversa, la non espressione di uno o più geni ( cioè lavorando sull’editing) come il CRISPR, stanno trasformando anche il settore agroalimentare, alla ricerca di piante resistenti ai climi estremi e ai parassiti, e meno bisognose di fertilizzanti. E stanno rivoluzionando anche la nutraceutica, cioè quell’approccio che utilizza il cibo con finalità preventive o direttamente terapeutiche. L’Italia, nonostante ricada sotto la legislazione europea, che vieta il commercio di piante sottoposte a editing, sta andando comunque avanti negli studi, e sta partecipando a vari progetti internazionali coordinati da Paesi in cui è possibile lavorare con questi strumenti.
Uno dei primi successi è quello ottenuto da una collaborazione che, sotto l’egida dell’Università di Norwich, in Gran Bretagna, ha coinvolto anche i ricercatori del Crea di Roma e del Cnr- Ispa di Lecce, illustrato in un articolo uscito su Nature Plants: il pomodoro arricchito in vitamina D. Si stima che, nel mondo, il 40% della popolazione non abbia accesso a quantità sufficienti di questa vitamina, il cui precursore si trova nel pesce, nelle uova e nel latte. I vegetali, solitamente, con l’eccezione dei funghi, non ne contengono quasi, perché un enzima spinge il precursore della vitamina, la forma D3, a diventare colesterolo, azzerandone la concentrazione. Da qui l’idea di silenziare, tramite CRISPR, quell’enzima, e vedere se, così facendo, si recuperi tutta la D3 prodotta dalla pianta. Il risultato del silenziamento enzimatico è un pomodoro le cui foglie contengono 600 microgrammi di D3 per grammo di materia secca. E non è tutto. Poiché la D3 si trova in tutta la pianta, non ci sono sprechi, perché le parti non commestibili possono essere utilizzate per supplementi ed estratti. Infine, la D3 del pomodoro si trasforma nella forma attiva di vitamina D per esposizione ai raggi UV: dopo un’ora, in media un pomodoro fornisce un quantitativo di vitamina D pari a quello contenuto in un trancio di tonno da 28 grammi o in due uova. Oltre a ciò, secondo i test effettuati non vi è alcun effetto né sul gusto né sulla resa, e almeno teoricamente lo stesso approccio potrebbe essere utilizzato per altre solanacee quali le melanzane, patate e peperoni, che sfruttano le stesse vie metaboliche per la sintesi di D3. C’è poi un non trascurabile beneficio ambientale: visto che la stragrande maggioranza della vitamina D proviene dal pesce di acquacoltura, sempre più criticato e problematico, e che la richiesta di D3 è in costante aumento, avere a disposizione una fonte vegetale sarebbe di gran lunga preferibile, dal punto di vista della sostenibilità, e incontrerebbe il favore di vegani e vegetariani.
La Gran Bretagna che ha un problema di carenza diffusa, potrebbe autorizzare presto la vendita del pomodoro alla vitamina D, perché non più soggetta ai vincoli europei: sarebbe il primo vegetale frutto di CRISPR introdotto in commercio. L’iter potrebbe essere accelerato da nuove leggi in via di approvazione, tutte decisamente più permissive rispetto a quelle europee, considerate indispensabili anche per accelerare la lotta alle conseguenze del cambiamento climatico ( e ora anche della guerra in Ucraina), secondo quanto affermato da vari esponenti del Governo di Boris Johnson.