La parità retributiva impone la trasparenza
Si dovrà considerare l’importo complessivo e non solo i minimi tabellari La direttiva Ue dovrà essere coordinata con la certificazione della parità di genere
Con la direttiva 2023/ 970, l’Unione europea fornisce agli Stati membri un nuovo strumento per combattere la disparità di genere in tema di retribuzioni. Non si tratta di un obiettivo nuovo - il diritto alla parità di retribuzione tra donne e uomini per uno stesso lavoro o per uno di pari valore è già sancito dall’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2006/ 54/ Ce – ma cambiano e vengono rafforzati gli strumenti per conseguirlo.
In particolare, lo strumento su cui punta la direttiva è la trasparenza. Secondo le nuove disposizioni, ciascun datore di lavoro dovrà fornire informazioni sulle retribuzioni e sarà tenuto intervenire se il divario retributivo di genere supererà il 5 per cento. Inoltre, i datori avranno l’obbligo di fornire, alle persone in cerca di lavoro, informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia retributiva dei posti vacanti, riportandole nel relativo avviso o comunicandole prima del colloquio di lavoro. Ai datori sarà inoltre vietato chiedere ai candidati e alle candidate informazioni sulle retribuzioni percepite nell’attuale o nei precedenti rapporti di lavoro.
Una volta assunti, i lavoratori e le lavoratrici avranno il diritto di chiedere ai loro datori informazioni riguardanti le politiche retributive. Potranno, in particolare, domandare quali sono i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di dipendenti che svolgono lo stesso lavoro o uno di pari valore, e anche informarsi sui criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera. La direttiva precisa, inoltre, che tali criteri devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.
Le imprese con più di 250 dipendenti, inoltre, saranno tenute a riferire annualmente all’autorità nazionale competente in merito al divario retributivo di genere all’interno della propria organizzazione. Se dalla comunicazione emergerà un divario retributivo superiore al 5% non giustificabile sulla base di criteri oggettivi e neutri, le aziende saranno tenute ad adottare misure correttive di tale situazioni, da condividere in sede di esame congiunto con le organizzazioni sindacali.
Inoltre, entra nella normativa antidiscriminatoria il contrasto alla discriminazione intersezionale, quella fondata su una combinazione di diverse forme di disuguaglianza ( per esempio genere, etnia o sessualità).
Gli effetti di queste disposizioni potranno essere molto forti, in quanto sarà possibile individuare la disparità retributiva anche in presenza del rispetto formale dei contratti collettivi. Si pensi a un’azienda che applica per tutti i lavoratori e le lavoratrici di un certo livello professionale i minimi tabellari, ma riconosce mediamente dei superminimi e degli incentivi più elevati ai dipendenti di sesso maschile: tramite gli strumenti di informazioni previsti dalla direttiva, sarà più agevole individuare e contestare tale situazione, andando oltre il dato formale del rispetto dei minimi tabellari.
Le nuove regole non entrano subito in vigore - dovranno essere attuate entro tre anni da ciascuno Stato - ma sono destinate ad avere un impatto forte sul nostro ordinamento, dove esiste già un robusto impianto normativo volto a combattere la discriminazione di genere, ma mancano misure specifiche fondate sulla trasparenza; l’attuazione della direttiva richiederà anche un coordinamento con le norme esistenti in tema di certificazione della parità di genere e monitoraggio delle politiche retributive ( legge 162/ 2021).
Impatto che si estenderà alle sanzioni: i lavoratori e le lavoratrici che hanno subito una discriminazione retributiva basata sul genere potranno, sulla base della direttiva, ottenere un risarcimento, compreso il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e di eventuali premi.
Anche sul piano processuale ci saranno dei cambiamenti: ricadrà sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di non aver violato le norme in materia di parità di retribuzione e trasparenza retributiva.